Carlotta
rigirò piano la chiave nella serratura. Erano anni che non faceva così tardi,
anzi, forse non aveva mai fatto così tardi. Se sua madre si fosse svegliata,
sarebbe stata la fine.
Chiusa
la porta alle proprie spalle, si sfilò le scarpe e cominciò a calcare il
pavimento freddo con le punte dei piedi che le facevano male per lo sforzo. Il
dolore che provava le ricordò l’unica visita fatta dall’ortopedico che le aveva
prescritto le scarpe sformate che di solito portava.
Si
spogliò cercando di respirare piano. Poggiò ogni indumento sulla sedia con
entrambe le mani in un movimento lento. Poi si infilò la camicia da notte di
flanella rosa che le diede la solita sensazione di punture sottili sulla pelle
della schiena e delle braccia.
Doveva
andare in bagno ma non osava, il rumore dell’acqua avrebbe potuto svegliare sua
madre e lei non avrebbe saputo che dirle. Aveva bisogno di tempo per pensarci.
La pancia le sembrava le scoppiasse, aveva crampi e dolori continui al basso
ventre. Decise di rischiare.
Camminò
dapprima rasente al letto, poi all’armadio infine alla porta. Raggiunse la
porta del bagno che aprì lentamente. Al buio, per evitare che il “clac”
dell’interruttore svegliasse sua madre cercò a tastoni il water.
Alzò
la camicia da notte e fece scivolare le mutande giù per le gambe in modo che
l’elastico non facesse rumore.,
Quindi
si sedette e prese la mira in modo che la pipì non cadesse direttamente
nell’acqua ma sulla parete di ceramica in modo da attutire il rumore. Rinunciò
ovviamente ad usare lo sciacquone. Il giorno dopo si sarebbe svegliata un po’
prima di sua madre e avrebbe tirato l’acqua.
Non
prese neanche in considerazione l’idea di lavarsi i denti o di levarsi il poco
trucco che aveva sul viso. Uscì di soppiatto dal bagno e raggiunse la propria
camera tastoni, come se non conoscesse ormai ogni angolo della casa in cui
abitava ormai da trent’anni.
Raggiunse
il letto quasi stupendosi di non essere stata scoperta, per una volta, in
cinquant’anni vita, di averla fatta a sua madre.
“dorme”
pensò “meno male. Ho fatto più tardi di quanto pensassi e temevo che si sarebbe
svegliata. Invece, come al solito mi preoccupavo troppo. E dorme della grossa.
Non ha fatto neanche un rumore, neanche un lamento da che sono entrata”.
Sua
madre aveva l’abitudine di emettere lamenti e gemiti simili a muggiti, anche se
perlopiù in coincidenza di cene a base di cavolo stufato che si ostinava a
mangiare benché sapesse di non digerirlo bene. Il giorno dopo, non appena
Carlotta andava in cucina, per la colazione, sua madre, dandole le spalle per
accendere il fornello sotto il pentolino del latte le diceva, con una voce
carica di sottintesi: “lo sapevo che il cavolo mi avrebbe fatto male”.
Quando
le accadeva di avere la digestione difficile, o qualunque altro problema,
Carlotta sentiva che la madre riusciva in qualche modo a darne implicitamente
la responsabilità a lei.
Carlotta
non rispondeva nulla. La reazione che le sarebbe venuta spontanea sarebbe stata
urlare: “ma non è colpa mia!”. Ma sapeva che a quel punto sua madre l’avrebbe
guardata come si guarda un’indemoniata e le avrebbe risposto. “e chi ha detto
che è colpa tua? Ma perché devi sempre essere così nervosa... In questo, hai
preso da tuo padre”.
Era
un’altra cosa tipica. I difetti erano tutti di suo padre. Se si sforzava di
essere precisa: “sei pedante come tuo padre”, se andava di fretta e dimenticava
qualcosa: “sei sciatta come tuo padre”.
Carlotta
si domandava che cosa lo avesse sposato a fare. Ma anche su questo sua madre,
Anna Maria, aveva la risposta pronta. “ero così giovane, e lui era bravo a
parlare” che sembrava che si fosse fatta appioppare un’enciclopedia scadente da
un venditore a porta a porta senza scrupoli.
Più
o meno in questo modo Anna Maria aveva liquidato anche Taddeo, il suo
corteggiatore storico. “E’ uno carico a chiacchiere” aveva detto dopo una cena
insieme. In realtà Taddeo, che era un ragazzone piuttosto timido e serio, aveva
semplicemente cercato di fare buona impressione su Anna Maria tenendo viva la
conversazione durante una terribile serata.
Carlotta
ricordava quella sera in ogni dettaglio, ed in quel momento, stesa nel letto,
poteva ripensarci con trionfo, con rivalsa.
Aveva
ormai trent’anni, tutte le sue amiche si erano sposate e lei ancora no. Le
incontrava spesso in giro per i negozi del quartiere mentre spingevano i loro
passeggini, le più fortunate, già tenendo per mano il frugolo più grande che
strepitava come un’orda di pinguini, inseguiti da un’orca sanguinaria.
La
seconda domanda dopo “come stai” era “ti sei fidanzata?”. Le più indelicate un:
“ti sei sposata?”, mentre con la coda dell’occhio avevano già ispezionato
l’anulare della mano sinistra, e si erano già risposte.
La
cosa peggiore era che avevano smesso di chiederle “come mai?”. Si limitavano ad
annuire e a cambiare rapidamente argomento, quasi avessero fatto una gaffe,
Questo fece capire a Carlotta che ben presto non le avrebbero neanche più
chiesto se si era sposata. Il suo essere una zitella (il termine “single” era
di gran lunga posteriore e pareva a Carlotta un eufemismo ipocrita) sarebbe
stato iscritto nell’ordine naturale delle cose.
Se
Carlotta era onesta con se stessa fino in fondo, e si guardava davvero dentro,
era questo che l’aveva spinta ad incoraggiare finalmente Taddeo.
Era
un bravo ragazzo, con una discreta occupazione, uno dei pochi che non si fosse
ancora sistemato e, dulcis in fundo, da sempre innamorato di lei. A
Taddeo non parve vero che Carlotta lo incoraggiasse. L’aveva sempre ammirata di
lontano, ritenendosi fortunato se semplicemente Carlotta gli rivolgeva la
parola. E ora Carlotta, il sogno della sua vita, l’altera Carlotta, lo invitava
a cena a casa sua, con sua madre.
Carlotta
ricordava come se fosse successo ieri, Taddeo si era presentato con un enorme
mazzo di fiori, Gerbere di ogni colore tenute insieme da una splendida
confezione in rafia e una bottiglia di vino rosso.
Aveva
indossato un vestito in tinta e si era messo la cravatta, come usava una volta.
Era commovente. Perlomeno lo sarebbe stato per tutti, tranne che per Anna
Maria.
Riuscì
ad imprimere alla serata il tono dell’incubo sin dalla presentazione. Fece
finta di non capire il nome di Taddeo. “come ha detto di chiamarsi? Babbeo?”.
Taddeo sorrise imbarazzato, ma incoraggiato dallo sguardo comprensivo di
Carlotta non si scompose eccessivamente.
Poi
chiese se le Gerbere fossero da insalata e se l’abito di Taddeo fosse proprio
suo visto che sembrava che indossasse l’abito di un’altra persona.
Per
il resto della serata Anna Maria evitò di rivolgere la parola direttamente a
Taddeo e fece finta che non esistesse, talvolta in maniera plateale, come
quando per prendere l’acqua dall’altra parte della tavola per poco non gli
diede un pugno sul naso.
A
Carlotta venivano le lacrime agli occhi, ma non si scompose e cercò di conversare
con Taddeo come meglio poté. Le sembrava di portare un masso di cinquanta chili
in salita, si rese presto conto che l’unica cosa che desiderava era che la
serata finisse. E presto.
Quello
che ancora Carlotta non riusciva a perdonare a sua madre sopra ogni cosa, fu il
sorriso soddisfatto quando Taddeo si congedò, evidentemente a disagio
farfugliando un saluto sulla porta.
Nei
giorni successivi, ogni volta che si parlava di qualcuno, ovviamente male, e a
qualunque proposito, Anna Maria si sentiva in dovere di aggiungere: “un altro
tipo carico a chiacchiere...” non guardando ostentatamente Carlotta.
Carlotta
smise di incontrarsi con Taddeo. Le sue uscite ed attività sociali, nel tempo
si erano andate riducendo ed ora erano limitate all’andare in ufficio, al fare
la spesa e alla messa domenicale.
Mai
avrebbe rinunciato, in particolare, a quest’ultima, unica uscita concessale che
non avesse un tornaconto diretto per sua madre, anche se più volte Carlotta
aveva sospettato che le fosse consentita per due motivi: il primo è che Anna
Maria era bigotta e superstiziosa e probabilmente temeva che la cosa le si
sarebbe ritorta contro, il secondo, che Anna Maria in fondo sperava che
Carlotta pregasse anche per lei, perché guarisse dai suoi innumerevoli malanni
e vincesse finalmente l’ambo che giocava da anni con pertinacia sulla ruota di
Napoli.
Carlotta
si accorse di pensare per la prima volta alla sua vita tutta insieme, a quello
che ne era stato di lei. Pensò che la vera tragedia non è quando la vita cambia
all’improvviso, per un incidente stradale, l’atto di un folle, una catastrofe
naturale, un tracollo finanziario, la perdita del posto di lavoro.
La
vera tragedia è quando la vita cambia, giorno dopo giorno, in una serie di
piccole, innominate rinunce. Si rinuncia a poco a poco a pezzi di sé, della
propria volontà del proprio essere, senza neanche lottare. Si susseguono una
serie di “perché no?” che non sono sì, ma neanche no, e alla fine ti trovi a
vivere una vita che non è la tua, completamente. Ti è stato sottratto tutto,
nottetempo, come quando da piccola si addormentava nel letto dei genitori e si
trovava al mattino nel proprio lettino, in un altro posto, ed era semplicemente
naturale.
Nulla
di ciò che Carlotta possedeva le apparteneva né tantomeno le somigliava. La sua
stanza era il rigido spettro di quello che era stato il suo gusto e i suoi
desideri. Le foto alle pareti non le aveva scelte lei. Erano foto che non
avevano trovato posto altrove nella casa e che in qualche modo erano defluite
sulle pareti di quella che era una terra di nessuno: la sua stanza da ragazza.
Carlotta
non era più una ragazza, né ci si sentiva. Si era trovata improvvisamente
calata in uno stereotipo ambrato, la figlia non sposata che è rimasta ad
accudire la madre vedova. Un angelo sacrificale, un nume tutelare. Una perfetta
idiota.
I
pensieri le facevano montare in petto una rabbia sorda e ancora una volta
negata. Avrebbe voluto in quel momento urlare che non ci stava più, che il
gioco era finito. Ma non l’avrebbe fatto, sarebbe restata lì nel letto a
guardare il gioco che la poca luce della strada che filtrava dalle tapparelle
non serrate faceva sul soffitto della stanza. Il suo nido di spine.
Avrebbe
resistito a dire a sua madre: “te l’ho fatta sotto il naso! Beccati questo ben
ti sta. La tua amata figlioletta, il tuo angelo del focolare è uscita di notte,
con un uomo, un uomo conosciuto a malapena. Come una puttana.”?
“Come
una puttana” ripetè la piccola frase sottovoce, nel silenzio della stanza, come
una formula magica, un mantra della perdizione. Lei che non diceva mai
parolacce, che non bestemmiava, che quando qualcun altro lo faceva distoglieva
lo sguardo trattenendo a stento il gesto anacronistico di segnarsi il petto con
la croce, come sua nonna.
No
forse non glielo avrebbe detto subito, avrebbe prima tentato di accumulare
altri crediti per poi sciorinarglieli tutti assieme, magari durante una delle
sue aulentissime cene a base di cavolo, o meglio ancora uscendo dalla messa
domenicale, distrattamente : “a proposito mamma..”
Non
riusciva a prendere sonno, le si agitavano nella testa le immagini di se stessa
tra le braccia di Enzo, quell’uomo estraneo, incontrato per caso in ufficio, il
primo da anni che le prestasse attenzione come ad una donna e non come ad una
suppellettile dell’ufficio, un distributore semiautomatico di certificati.
Sotto
quello sguardo si era sentita nuovamente consapevole di possedere un corpo,
un’apparenza, della banalità del proprio abbigliamento.
La
frase “potremmo vederci una di queste sere?” la colse di sorpresa, tra un
certificato di nascita ed uno di stato civile in carta semplice. Quello che
avrebbe desiderato trovare non era una risposta sensata, ma una risposta
adatta, che la riportasse al proprio rango di donna, che la strappasse
all’improvviso alla sua “camera da ragazza” e agli anni di carriera come
badante della propria madre. Dalle labbra le uscì una risposta sufficientemente
ambigua, una specie di “non so”. Le ricordava un gioco da bambini molto
piccoli: “la risposta tra tre giorni”.
Tornò
a casa e aprì quasi con rabbia gli armadi alla ricerca di un abito da donna,
non da zitella. Non uno scamiciato grigio, né una gonna a campana, nessuna
camicia di flanella, né un pullover comprato alle bancarelle, trenta euro la
coppia.
Quasi
in stato di trance, aveva poi aperto il cassetto e aveva tirato fuori la
biancheria intima, dozzinale, di poco prezzo. Busti e pancere, calze con doppio
rinforzo, riposanti color carne e latte.
I
tempi migliori erano passati da troppo tempo, i suoi vecchi collant, ormai
fuori moda, non avrebbero comunque ospitato la pancetta sporgente, i fianchi
allargati.
Doveva
comprare nuovi abiti e nuova biancheria, doveva procurarseli senza che Anna
Maria se ne accorgesse. A come avrebbe potuto lavarli e nasconderli avrebbe
pensato in secondo tempo.
La
sera al buio, sul divano, accanto a sua madre, colpita dai riflessi di una
trasmissioni a premi, languiva alla ricerca di qualcosa da dirle, da dire ad
Anna Maria. Lei le avrebbe detto: “stasera esco”, Anna Maria le avrebbe
chiesto: “e dove vai?”. E sarebbe stata la fine. Non poteva dirle la verità e
non riusciva a mentirle.
“Che
hai?”, Carlotta si scosse dalla propria fantasticheria per guardare Anna Maria.
“Perché me lo chiedi?” rispose, già sulla difensiva. “Hai un’espressione
strana, come se fossi arrabbiata... o spaventata. O tutte e due le cose”.
“Mi
hanno fatto arrabbiare oggi in ufficio. Le solite cose”. Mentre rispondeva si
rese conto del piccolo miracolo. Se voleva riusciva a mentire ad Anna Maria,
certo, su cose secondarie, insignificanti. Ma poteva farlo.
Fu
una sua collega che le diede l’idea.
“hai
una faccia tremenda Carlotta da un po’ di giorni. Che hai?”
“dormo
male, non so che mi prende” Carlotta rispose, ed era, in realtà una buona parte
del problema.
“perché
non prendi queste gocce? Le ho appena prese dalla farmacia. Se vuoi te le dò.
Ci vuole la prescrizione, io me le vado a riprendere...”
“Oh...
grazie Patrizia, quanto ti devo?”
“Ma
niente, figurati... sei sempre così gentile quando serve un favore a me... è il
minimo!”.
Quella
sera Carlotta dormì come un sasso, non aveva preso le gocce, aveva solo risolto
il problema.
Lesse
attentamente il foglietto illustrativo del medicinale. Quella sera, dopo la
cena, come al solito finita puntualmente alle otto e mezzo in modo che Anna
Maria si potesse godere in santa pace il film su rai uno, Carlotta versò venti
gocce di sonnifero nella tisana di sua madre.
Anna
Maria si addormentò poco dopo i titoli di coda. Carlotta fece uno squillo a
Enzo, per avvertirlo che sarebbe stata pronta in venti minuti.
Si
preparò con cura, scegliendo ogni singolo capo tra quelli che aveva acquistato.
Si pettinò i capelli e li raccolse, poi si accolse che la invecchiavano e la
facevano somigliare ancora di più a sua madre. Li sciolse nervosamente e li
arruffò con entrambe le mani.
Si
mise poche gocce di profumo e uscì appena in tempo per evitare che Enzo
suonasse il campanello.
Il
giorno dopo Carlotta si alzò molto presto, per struccarsi ed eliminare ogni
traccia della propria spavalderia prima che Anna Maria si svegliasse.
Alle
sette e mezzo sua madre dormiva ancora. Carlotta si avvicinò alla porta della
camera da letto per accorgersi che al solito respiro regolare di Anna Maria
quando dormiva si era sostituito un affanno rauco.
Si
avvicinò alla madre e prese a scuoterla, prima lentamente, via via sempre più
forte finché si trovò a strattonarla urlando “mammaaaaaaaa!”.
L’ambulanza
fu lì in pochi minuti. Anna Maria era riuscita a mettersi a letto e a spegnere
la TV, poi un malore, qualcosa al cuore l’aveva fatta sentire male. Chissà se
aveva chiesto aiuto, chissà.
Nel
corridoio dell’ospedale Carlotta se ne stava su di una panca rannicchiata in un
angolo, stringendo a sé la propria borsa. Era uscita di casa senza pettinarsi,
si era vestita senza sapere che cosa indossava.
Il
medico le aveva detto che sua madre rischiava la morte o danni permanenti al
cervello. L’invalidità, insomma. Carlotta si sentiva come un cane che tentando
di fuggire si strangola col guinzaglio.
Il
medico uscì dalla sala e le andò incontro. Le poggiò le mani sulle spalle e la
guardò negli occhi e disse la frase, chissà quante volte detta, ormai
consumata, lisa agli angoli, una frase vecchia, una foglia secca sul pavimento
di linoleum.
“coraggio”.
Carlotta
scoppiò a piangere, piangeva per paura, per dolore, per disperazione, per
disillusione,
Ma
piangeva anche di rimorso, di colpa, di disgusto. Soprattutto di un invadente
senso di liberazione.
A
casa avrebbe gettato in una scatola gli abiti grigi, le scarpe ortopediche, i
mutandoni sformati. Forse solo per ricomprarli uguali, ma non sarebbero stati
gli stessi.