domenica 13 marzo 2016

Sobborgo senza Luce 

di Pablo Neruda


Se ne va la poesia delle cose
O può condensarla la mia vita?
Ieri – guardando l’ultimo crepuscolo,
ero una macchia di muschio tra le rovine.

Le città – fuliggini e vendette
Lo lordura grigia dei sobborghi
Il lavoro che incurva le spalle
Il capo dagli occhi annebbiati

Sangue di un tramonto sopra i colli, 
sangue sopra le strade e le piazze, 
dolore di cuori spezzati,  
putridume di tedio e di lacrime. 

Un fiume abbraccia il sobborgo
come una  mano gelida
che palpi nelle tenebre: 
sulle sue sponde le stelle 
si vergognano di specchiarsi. 

Le case nascondono i desideri 
dietro le finestre luminose, 
mentre fuori il vento  porta
un po’ di fango a ogni rosa

Lontano, la nebbia dell’oblio,
un fumo spesso di steli rotti
e il campo, il campo verde,
in cui ansimano i buoi e gli uomini sudati


Io sto qui, sbocciato tra le rovine,
a mordere solo tutte le tristezze,
come se il pianto fosse un seme
e io l'unico solco della terra.

giovedì 21 gennaio 2016

Giù la maschera - l'orrore dell'affido forzato

Conosco bambini che vivono in famiglie "normali", traumatizzati, abbandonati, negletti, violati, ma va tutto bene. perché il loro papà e la loro mamma li hanno avuti naturalmente (Darwin, dove sei?).

Conosco bambini che vivono con due papà o con un solo papà e vivono felici, amati e protetti.

Conosco persone che hanno l'idea che la religione sia un vigile urbano e Dio un oscuro signore sulla ottantina che, per strani motivi, consente il trapianto di cuore (eppure non credo sia naturale neanche quello) ma ce l'ha a morte con la FIVET.

Conosco anche persone tirano in ballo "la società non pronta"e i traumi che un bambino dovrebbe sopportare per la non accettazione sociale, come se l'emarginazione e il bullismo fossero colpa di chi li subisce.

Conosco persone che quando si tratta di impedire alla nostra società di evolvere tirano fuori lo spauracchio dello sfruttamento e della violazione dei diritti umani e non si sono mai fatti un giro nelle campagne del ragusano per vedere come sono trattati i lavoranti.

Conosco persone che per un pugno di voti farebbero qualunque cosa ma non vogliono che si sappia.
Ho sempre pensato che, in fondo, ci fosse stupidità in buona fede. Ora, però, di fronte all'emendamento sull'affido forzato capisco che non c'è alcuna buona fede,  e questo spiega anche perché molti parlamentari siano riluttanti a dichiarare al mondo di essere tra coloro che ostacolano la "stepchild adoption".

Non credo si vergognino, sarebbe chiedere troppo, ma forse, in fondo, un po' hanno paura, perché la loro non è una battaglia che si basa sui valori, ma sui pregiudizi e, forse, neanche i loro. Vedo solo una grande grettezza morale e una grande invidia per chi riesce a vivere, amare e ha il coraggio di chiedere.

Non voglio immaginare lo strazio di un bambino cresciuto con uno o due genitori, allevato con affetto, cura, attenzione, che solo chi ha dovuto lottare per ottenere qualcosa conosce, strappato via da tutto ciò che ama e da coloro che lo amano più di chiunque al mondo.

C'è bisogno di un paese stanco di subire e che crede in un domani diverso, migliore. Dio, se esisti, fa' che sia il mio.

venerdì 4 settembre 2015

Un sogno sbagliato ma pulito

"...di tutti gli Eroi che hanno popolato l'Olimpo di quasi due generazioni di giovani, il solo scampato alla strage della delusione e' stato "il Che", Guevara. Non per i suoi pensieri e idee, ma per i suoi comportamenti, e cioe' per essere stato quello che della delusione ha voluto pagare, per tutti, il conto. Io non ho conosciuto Guevara. Ma credo che il testimone piu' attendibile della sua personale vicenda sia stato il giornalista francese Regis Debray che per un tratto di strada la condivise e ne trasse una conclusione che ritengo giusta: e cioe' che quando lascio' Cuba per imbarcarsi nella sua disperata avventura, Guevara sapeva benissimo che quell'avventura era disperata e l'avrebbe fatalmente condotto alla morte, ma la morte era proprio quello che lui desiderava come l'unica possibile e dignitosa conclusione di una vita come la sua, vissuta all'insegna dell'Utopia. Non risulta affatto che fu Castro a spingervelo come qualcuno sospetto' e insinuo'. Guevara non poteva dargli alcun fastidio perche' non era uomo di potere che potesse insidiare il suo. Era uomo di Rivoluzione, che mai si sarebbe rassegnato ad una comoda esistenza di ben pasciuto gerarca. Doveva tornare alla Rivoluzione, pur consapevole della sua impossibilita' in Paesi che lui ben conosceva, ma appunto proprio per questo: per cercare una morte coerente con la sua vita. Se le cose stanno cosi' (ed io sono convinto che cosi' stiano), mi pare giusto che, fra tutti gl'idoli infranti della Grande Palingenesi sognata dai nostri figli e nipoti, "il Che" sia l'unico a possedere i titoli che lo rendono degno di scampare alla strage. Avessi trenta o quarant'anni di meno, anch'io forse avrei nel mio modesto appartamento una stanza attrezzata a mausoleo del Che, e lo conserverei come souvenir di un Sogno sbagliato, ma pulito, e comunque pagato. E' a coloro che non vogliono mai pagare nulla che va tutto il mio disprezzo.*
Montanelli Indro
Dall'Archivio Storico del Corriere

venerdì 8 maggio 2015

Il tempo dell'attesa

Ultimamente mi colpisce in particolare l'ansia che abbiamo tutti di riempire il tempo.
Scalpitiamo frenetici quando dobbiamo aspettare, anche pochi minuti e ci assale l'ansia del tempo perduto.
Io sono la prima a farlo. Ho sempre:
- un libro da bagno
- un libro da macchina
- un libro da borsetta
- un libro da comodino
Prima ancora che esistessero gli smartphone, le applicazioni e Facebook, mi assicuravo che ogni mio minuto fosse occupato da qualcosa.
Solo che qualche tempo fa mi è accaduta una cosa. Ogni anno pianifico una vacanza di gruppo molto bella, è un momento speciale per me, un regalo che da 6 anni a questa parte mi sono fatta quasi ogni anno.
A un certo punto mi sono accorta che il giorno della partenza era arrivato e io non lo avevo aspettato. Punto. Tutto qui.
Ho avuto la sensazione di essermi persa qualcosa, mi sono resa conto che, in alcune circostanze, l'attesa, l'anticipazione, è una parte del piacere e che la mia vita (troppo?) piena mi aveva privata di quel piacere. Un fantasticare pallido, in una giornata uggiosa, un lampo giallo in una sala d'attesa, un sorriso lieve a un semaforo un martedì mattina.
E ora, quando mi capita di aspettare, inseguo un pensiero felice, l'anticipazione di qualcosa di bello.
E il tempo dell'attesa è di nuovo mio.

venerdì 17 aprile 2015

Che cos'è un padre?

Sono stata colpita da una frase che mi è stata detta ultimamente da una persona cara.

"Per me lui non è mio padre. Non lo è mai stato. Non so come sia avere un padre."

Allora mi sono domandata che cosa voglia dire essere un padre. Credo che ancora, nell'immaginario collettivo essere madre è più chiaro che essere padre.
La madre è quella che ti accudisce, ti consola, ti accoglie, sempre e comunque, che ti ha dato la tua vita e ti darebbe la sua. Il padre anche?
Non saprei dirlo. Io so come è stato mio padre. Era un padre ingombrante, presente, rumoroso, qualche volta invadente.
Il suo modo di occuparsi di noi era provvedere economicamente per la famiglia. Non ha mai avuto un lavoro dipendente e ogni giorno, diceva, doveva inventarsi il suo guadagno, inseguire i clienti, controllare che lo pagassero, trattare con persone difficili, e certo non era il suo forte.
Ho mai potuto pensare di lui che non fosse un padre? Non un buon padre, semplicemente un padre. Ancora, una volta, che vuol dire?

Forse associo il padre, mio padre alla dignità dell'onestà e del lavoro. 
Mio padre aveva orrore dei debiti, per lui era un problema persino fare le rate, e quando ha potuto farlo ha estinto il mutuo della casa, anche quel debito, ormai così comune per lui era inaccettabile.
La mia famiglia non è mai stata benestante e io mi sono mantenuta agli studi con il mio stipendio da impiegata diplomata, quando mio padre mi vedeva tornare la sera dall'ufficio, dopo nove o dieci ore di lavoro e mi vedeva stanca, china sui libri, mi diceva:
- Se non te la senti, puoi lasciare, papà te la paga l'università.
Ma io scuotevo la testa, ci tenevo a non pesare. Ce la facevo a lavorare e studiare. Ho tenuto duro.

Quando mi sono laureata ha detto che è stato il giorno più bello della sua vita. 
Non credo fosse vero, ma non importava. Credo che gli pesasse il fatto che avessi scelto di pagarmi gli studi, che sentisse di non aver fatto abbastanza per me. 
E io so che molti pensano che il lavoro, la fatica, non sia di per sé un valore, e forse non lo è, ma per me sapere provvedere per me stessa, non dovere niente a nessuno, continua a essere, ancora oggi, qualcosa di cui essere fiera, e questo me lo  ha trasmesso mio padre.

Quando papà è morto era ottobre, aveva smesso di lavorare solo qualche mese prima, aveva 81 anni.
Un suo amico ha detto al suo funerale: è morto giovane, come voleva.
E può darsi che sia questa la chiave, che vuol dire avere un padre, io l'ho saputo il giorno in cui non l'ho avuto più. 
Era l'uomo di cui cercare la mano nei momenti più bui, più di quanto non avrei cercato l'abbraccio di mia madre, protezione, prima della consolazione, c'era stato sempre quando avevo avuto bisogno di sentirmi forte.  E ora non più, mai più.
Eppure certe volte penso: ho tanto di mio padre dentro di me, che per staccarmi da lui che lui sia morto non basta, dovrò morire anche io. 

E forse neanche allora, e come quando da piccola  avevo paura, dall'altra parte troverò la sua mano ad aspettare la mia.

giovedì 9 aprile 2015

Gli amici si vedono nel momento della felicità

Dobbiamo smetterla di alimentare un'annosa menzogna, quella secondo la quale gli amici di vedono nel momento del bisogno.
L'amicizia vera, secondo questa vecchia e diffusa credenza, si vedrebbe quando siamo nella disgrazia, quando stiamo male. I veri amici accorrono al nostro fianco quando siamo in lacrime, quando non ne possiamo più.

Nulla di più falso. Che ci vuole, dico io, che ci vuole? A meno che non siamo specialisti della lagna multipla, se siamo dotati di un minimo di autoironia, in grado di pagarci una pizza, o abbiamo un forno funzionante, troveremo con la massima facilità qualcuno che sia al nostro fianco per sentirci sciorinare le nostre difficoltà, sostenendoci e godendo di una serie di vantaggi secondari non da poco:

- pensare: meglio a lui che a me;
- sentirci saggi
- farci apprezzare di più quello che abbiamo
- sentirci utili
- scansare cene a cui non avevamo voglia di andare con la scusa: "sai, il mio amico sta tanto male..."

e potrei continuare all'infinito.

Gli amici, quelli veri, sono quelli che ti restano accanto nel momento della felicità. Sono quelli che, senza provare neanche un minimo di larvata invidia possono vederti volare vari metri sopra il cielo, sentirti sciorinare la magnificenza del partner di turno, decantare la meraviglia del posto in cui sei in vacanza, del meraviglioso lavoro che hai finalmente trovato, che realizza tutti i tuoi sogni, la tua illimitata potenzialità creativa e ti fa anche rimorchiare, senza doversi ripetere in continuazione mentalmente "tanto non dura, tanto passa...".

Ed è proprio il fatto che conosciamo questa verità che, secondo me, ci spinge a nascondere i nostri successi, a rispondere raramente o mai "benissimo" a chi ci chiede come stiamo, e a andare in giro come araldi del lamento (sapendo che NESSUNO dei nostri cari amici prenderà sul serio i nostri post trionfali su Facebook).

Perché preferiamo essere lamentosi e circondati di umana solidarietà che svettare felici e solitari nel vento.

Concludendo, se vogliamo sapere chi ci è amico davvero, nella remota ipotesi dovesse capitarci di essere felici, guardiamoci attorno e vediamo chi è restato.

E comunque, sappiate, io sto DAVVERO male.

lunedì 6 aprile 2015

Gli amori degli altri

Gli amori degli altri sono sempre banali. E noi sapremmo che dire e che fare.
Gli amori degli altri sono sempre facili da tagliare, chiudere, mandare all'aria. Sono aritmetici
da valutare e giudicare.
Gli amori degli altri sono dei libri aperti. E noi conosciamo bene il sommario, e la parola fine. Non abbiamo dubbi su come si sfoglino le pagine. Non ci sono colpi di scena, per noi è già tutto previsto.
Gli amori degli altri non ci fanno soffrire. Ci fanno ridere, sono un film già visto.
Gli amori degli altri sono sempre sbagliati.
E non ci perderemmo un attimo.
Perché sappiamo che se non funziona non funzionerà.
E se non è vicino a te è perché non vuole starci.
E se non ti chiama è perché non vuole chiamarti.
Non ci sono paure nascoste. O blocchi profondi. Oscuri nemici. O persino fattucchiere che tramino nell'ombra. In amore se non è "sì" è "no". Il "forse" non esiste.
Sono semplici gli amori degli altri.
Quale meravigliosa fortuna, che a noi, gli amori degli altri, non capitino mai.

venerdì 9 gennaio 2015

Quando, quando?

Concerto di Pino Daniele il 13 dicembre a Roma.
Come al solito mi decido all'ultimo momento, trovo biglietti sfigati e costosi. Mi dico: è un concerto straordinario, con la band storica... Non fa niente, li compro lo stesso.
Poi sopraggiungono problemi di lavoro, e prendo in considerazione di lasciar perdere, rivendere i biglietti, tanto, ci vado la prossima volta!
Invece alla fine riesco a sistemare. Passo una serata stupenda, Pino Daniele è meraviglioso, trascinante e commovente, concede due bis.
Tutta la serata sono continuamente in preda all'emozione, mi dico che non mi perderò neanche il prossimo e che se ci fossero ancora i biglietti andrei anche a Napoli quattro giorni dopo.

E stamattina ho pensato, quando credi di sapere, di aver capito, perché hai già perso tante persone, tante cose belle, hai già dato per scontati troppi domani che non ci sono stati, rischi di ricadere nello stesso errore.
Quello che ami è quello che conta, anche se è scomodo, anche se costa tanto. Quello che ami è quello che conta, perché non sai se amerai ancora.
Pino, spero che i concerti ci siano anche di là, appena arrivo cerco te e Fabrizio.

giovedì 13 marzo 2014

Perché le quote rosa non bastano

Io non voglio contare le donne in politica, voglio che le donne contino in politica.
Non mi importa se ci sono il 50% delle donne nelle liste se non se ne sente mai parlare, se non si sentono mai parlare e se quando parlano dicono sciocchezze.
Usciamo dal tunnel: più Bonino (seppure con i suoi limiti) e meno Gelmini.
PS: ho esitato a lungo prima di trovare il nome di una donna politica (ancora vivente) stimata da tutti in Italia e probabilmente non ci sono riuscita. E questo vuol dire che di strada da fare ne abbiamo davvero tanta.

domenica 9 marzo 2014

L’UNICA DISTRAZIONE

Carlotta rigirò piano la chiave nella serratura. Erano anni che non faceva così tardi, anzi, forse non aveva mai fatto così tardi. Se sua madre si fosse svegliata, sarebbe stata la fine.
Chiusa la porta alle proprie spalle, si sfilò le scarpe e cominciò a calcare il pavimento freddo con le punte dei piedi che le facevano male per lo sforzo. Il dolore che provava le ricordò l’unica visita fatta dall’ortopedico che le aveva prescritto le scarpe sformate che di solito portava.
Si spogliò cercando di respirare piano. Poggiò ogni indumento sulla sedia con entrambe le mani in un movimento lento. Poi si infilò la camicia da notte di flanella rosa che le diede la solita sensazione di punture sottili sulla pelle della schiena e delle braccia.
Doveva andare in bagno ma non osava, il rumore dell’acqua avrebbe potuto svegliare sua madre e lei non avrebbe saputo che dirle. Aveva bisogno di tempo per pensarci. La pancia le sembrava le scoppiasse, aveva crampi e dolori continui al basso ventre. Decise di rischiare.
Camminò dapprima rasente al letto, poi all’armadio infine alla porta. Raggiunse la porta del bagno che aprì lentamente. Al buio, per evitare che il “clac” dell’interruttore svegliasse sua madre cercò a tastoni il water.
Alzò la camicia da notte e fece scivolare le mutande giù per le gambe in modo che l’elastico non facesse rumore.,
Quindi si sedette e prese la mira in modo che la pipì non cadesse direttamente nell’acqua ma sulla parete di ceramica in modo da attutire il rumore. Rinunciò ovviamente ad usare lo sciacquone. Il giorno dopo si sarebbe svegliata un po’ prima di sua madre e avrebbe tirato l’acqua.
Non prese neanche in considerazione l’idea di lavarsi i denti o di levarsi il poco trucco che aveva sul viso. Uscì di soppiatto dal bagno e raggiunse la propria camera tastoni, come se non conoscesse ormai ogni angolo della casa in cui abitava ormai da trent’anni.
Raggiunse il letto quasi stupendosi di non essere stata scoperta, per una volta, in cinquant’anni vita, di averla fatta a sua madre.
“dorme” pensò “meno male. Ho fatto più tardi di quanto pensassi e temevo che si sarebbe svegliata. Invece, come al solito mi preoccupavo troppo. E dorme della grossa. Non ha fatto neanche un rumore, neanche un lamento da che sono entrata”.
Sua madre aveva l’abitudine di emettere lamenti e gemiti simili a muggiti, anche se perlopiù in coincidenza di cene a base di cavolo stufato che si ostinava a mangiare benché sapesse di non digerirlo bene. Il giorno dopo, non appena Carlotta andava in cucina, per la colazione, sua madre, dandole le spalle per accendere il fornello sotto il pentolino del latte le diceva, con una voce carica di sottintesi: “lo sapevo che il cavolo mi avrebbe fatto male”.
Quando le accadeva di avere la digestione difficile, o qualunque altro problema, Carlotta sentiva che la madre riusciva in qualche modo a darne implicitamente la responsabilità a lei.
Carlotta non rispondeva nulla. La reazione che le sarebbe venuta spontanea sarebbe stata urlare: “ma non è colpa mia!”. Ma sapeva che a quel punto sua madre l’avrebbe guardata come si guarda un’indemoniata e le avrebbe risposto. “e chi ha detto che è colpa tua? Ma perché devi sempre essere così nervosa... In questo, hai preso da tuo padre”.
Era un’altra cosa tipica. I difetti erano tutti di suo padre. Se si sforzava di essere precisa: “sei pedante come tuo padre”, se andava di fretta e dimenticava qualcosa: “sei sciatta come tuo padre”.
Carlotta si domandava che cosa lo avesse sposato a fare. Ma anche su questo sua madre, Anna Maria, aveva la risposta pronta. “ero così giovane, e lui era bravo a parlare” che sembrava che si fosse fatta appioppare un’enciclopedia scadente da un venditore a porta a porta senza scrupoli.
Più o meno in questo modo Anna Maria aveva liquidato anche Taddeo, il suo corteggiatore storico. “E’ uno carico a chiacchiere” aveva detto dopo una cena insieme. In realtà Taddeo, che era un ragazzone piuttosto timido e serio, aveva semplicemente cercato di fare buona impressione su Anna Maria tenendo viva la conversazione durante una terribile serata.
Carlotta ricordava quella sera in ogni dettaglio, ed in quel momento, stesa nel letto, poteva ripensarci con trionfo, con rivalsa.
Aveva ormai trent’anni, tutte le sue amiche si erano sposate e lei ancora no. Le incontrava spesso in giro per i negozi del quartiere mentre spingevano i loro passeggini, le più fortunate, già tenendo per mano il frugolo più grande che strepitava come un’orda di pinguini, inseguiti da un’orca sanguinaria.
La seconda domanda dopo “come stai” era “ti sei fidanzata?”. Le più indelicate un: “ti sei sposata?”, mentre con la coda dell’occhio avevano già ispezionato l’anulare della mano sinistra, e si erano già risposte.
La cosa peggiore era che avevano smesso di chiederle “come mai?”. Si limitavano ad annuire e a cambiare rapidamente argomento, quasi avessero fatto una gaffe, Questo fece capire a Carlotta che ben presto non le avrebbero neanche più chiesto se si era sposata. Il suo essere una zitella (il termine “single” era di gran lunga posteriore e pareva a Carlotta un eufemismo ipocrita) sarebbe stato iscritto nell’ordine naturale delle cose.
Se Carlotta era onesta con se stessa fino in fondo, e si guardava davvero dentro, era questo che l’aveva spinta ad incoraggiare finalmente Taddeo.
Era un bravo ragazzo, con una discreta occupazione, uno dei pochi che non si fosse ancora sistemato e, dulcis in fundo, da sempre innamorato di lei. A Taddeo non parve vero che Carlotta lo incoraggiasse. L’aveva sempre ammirata di lontano, ritenendosi fortunato se semplicemente Carlotta gli rivolgeva la parola. E ora Carlotta, il sogno della sua vita, l’altera Carlotta, lo invitava a cena a casa sua, con sua madre.
Carlotta ricordava come se fosse successo ieri, Taddeo si era presentato con un enorme mazzo di fiori, Gerbere di ogni colore tenute insieme da una splendida confezione in rafia e una bottiglia di vino rosso.
Aveva indossato un vestito in tinta e si era messo la cravatta, come usava una volta. Era commovente. Perlomeno lo sarebbe stato per tutti, tranne che per Anna Maria.
Riuscì ad imprimere alla serata il tono dell’incubo sin dalla presentazione. Fece finta di non capire il nome di Taddeo. “come ha detto di chiamarsi? Babbeo?”. Taddeo sorrise imbarazzato, ma incoraggiato dallo sguardo comprensivo di Carlotta non si scompose eccessivamente.
Poi chiese se le Gerbere fossero da insalata e se l’abito di Taddeo fosse proprio suo visto che sembrava che indossasse l’abito di un’altra persona.
Per il resto della serata Anna Maria evitò di rivolgere la parola direttamente a Taddeo e fece finta che non esistesse, talvolta in maniera plateale, come quando per prendere l’acqua dall’altra parte della tavola per poco non gli diede un pugno sul naso.
A Carlotta venivano le lacrime agli occhi, ma non si scompose e cercò di conversare con Taddeo come meglio poté. Le sembrava di portare un masso di cinquanta chili in salita, si rese presto conto che l’unica cosa che desiderava era che la serata finisse. E presto.
Quello che ancora Carlotta non riusciva a perdonare a sua madre sopra ogni cosa, fu il sorriso soddisfatto quando Taddeo si congedò, evidentemente a disagio farfugliando un saluto sulla porta.
Nei giorni successivi, ogni volta che si parlava di qualcuno, ovviamente male, e a qualunque proposito, Anna Maria si sentiva in dovere di aggiungere: “un altro tipo carico a chiacchiere...” non guardando ostentatamente Carlotta.
Carlotta smise di incontrarsi con Taddeo. Le sue uscite ed attività sociali, nel tempo si erano andate riducendo ed ora erano limitate all’andare in ufficio, al fare la spesa e alla messa domenicale.
Mai avrebbe rinunciato, in particolare, a quest’ultima, unica uscita concessale che non avesse un tornaconto diretto per sua madre, anche se più volte Carlotta aveva sospettato che le fosse consentita per due motivi: il primo è che Anna Maria era bigotta e superstiziosa e probabilmente temeva che la cosa le si sarebbe ritorta contro, il secondo, che Anna Maria in fondo sperava che Carlotta pregasse anche per lei, perché guarisse dai suoi innumerevoli malanni e vincesse finalmente l’ambo che giocava da anni con pertinacia sulla ruota di Napoli.
Carlotta si accorse di pensare per la prima volta alla sua vita tutta insieme, a quello che ne era stato di lei. Pensò che la vera tragedia non è quando la vita cambia all’improvviso, per un incidente stradale, l’atto di un folle, una catastrofe naturale, un tracollo finanziario, la perdita del posto di lavoro.
La vera tragedia è quando la vita cambia, giorno dopo giorno, in una serie di piccole, innominate rinunce. Si rinuncia a poco a poco a pezzi di sé, della propria volontà del proprio essere, senza neanche lottare. Si susseguono una serie di “perché no?” che non sono sì, ma neanche no, e alla fine ti trovi a vivere una vita che non è la tua, completamente. Ti è stato sottratto tutto, nottetempo, come quando da piccola si addormentava nel letto dei genitori e si trovava al mattino nel proprio lettino, in un altro posto, ed era semplicemente naturale.
Nulla di ciò che Carlotta possedeva le apparteneva né tantomeno le somigliava. La sua stanza era il rigido spettro di quello che era stato il suo gusto e i suoi desideri. Le foto alle pareti non le aveva scelte lei. Erano foto che non avevano trovato posto altrove nella casa e che in qualche modo erano defluite sulle pareti di quella che era una terra di nessuno: la sua stanza da ragazza.
Carlotta non era più una ragazza, né ci si sentiva. Si era trovata improvvisamente calata in uno stereotipo ambrato, la figlia non sposata che è rimasta ad accudire la madre vedova. Un angelo sacrificale, un nume tutelare. Una perfetta idiota.
I pensieri le facevano montare in petto una rabbia sorda e ancora una volta negata. Avrebbe voluto in quel momento urlare che non ci stava più, che il gioco era finito. Ma non l’avrebbe fatto, sarebbe restata lì nel letto a guardare il gioco che la poca luce della strada che filtrava dalle tapparelle non serrate faceva sul soffitto della stanza. Il suo nido di spine.
Avrebbe resistito a dire a sua madre: “te l’ho fatta sotto il naso! Beccati questo ben ti sta. La tua amata figlioletta, il tuo angelo del focolare è uscita di notte, con un uomo, un uomo conosciuto a malapena. Come una puttana.”?
“Come una puttana” ripetè la piccola frase sottovoce, nel silenzio della stanza, come una formula magica, un mantra della perdizione. Lei che non diceva mai parolacce, che non bestemmiava, che quando qualcun altro lo faceva distoglieva lo sguardo trattenendo a stento il gesto anacronistico di segnarsi il petto con la croce, come sua nonna.
No forse non glielo avrebbe detto subito, avrebbe prima tentato di accumulare altri crediti per poi sciorinarglieli tutti assieme, magari durante una delle sue aulentissime cene a base di cavolo, o meglio ancora uscendo dalla messa domenicale, distrattamente : “a proposito mamma..”
Non riusciva a prendere sonno, le si agitavano nella testa le immagini di se stessa tra le braccia di Enzo, quell’uomo estraneo, incontrato per caso in ufficio, il primo da anni che le prestasse attenzione come ad una donna e non come ad una suppellettile dell’ufficio, un distributore semiautomatico di certificati.
Sotto quello sguardo si era sentita nuovamente consapevole di possedere un corpo, un’apparenza, della banalità del proprio abbigliamento.
La frase “potremmo vederci una di queste sere?” la colse di sorpresa, tra un certificato di nascita ed uno di stato civile in carta semplice. Quello che avrebbe desiderato trovare non era una risposta sensata, ma una risposta adatta, che la riportasse al proprio rango di donna, che la strappasse all’improvviso alla sua “camera da ragazza” e agli anni di carriera come badante della propria madre. Dalle labbra le uscì una risposta sufficientemente ambigua, una specie di “non so”. Le ricordava un gioco da bambini molto piccoli: “la risposta tra tre giorni”.
Tornò a casa e aprì quasi con rabbia gli armadi alla ricerca di un abito da donna, non da zitella. Non uno scamiciato grigio, né una gonna a campana, nessuna camicia di flanella, né un pullover comprato alle bancarelle, trenta euro la coppia.
Quasi in stato di trance, aveva poi aperto il cassetto e aveva tirato fuori la biancheria intima, dozzinale, di poco prezzo. Busti e pancere, calze con doppio rinforzo, riposanti color carne e latte.
I tempi migliori erano passati da troppo tempo, i suoi vecchi collant, ormai fuori moda, non avrebbero comunque ospitato la pancetta sporgente, i fianchi allargati.
Doveva comprare nuovi abiti e nuova biancheria, doveva procurarseli senza che Anna Maria se ne accorgesse. A come avrebbe potuto lavarli e nasconderli avrebbe pensato in secondo tempo.
La sera al buio, sul divano, accanto a sua madre, colpita dai riflessi di una trasmissioni a premi, languiva alla ricerca di qualcosa da dirle, da dire ad Anna Maria. Lei le avrebbe detto: “stasera esco”, Anna Maria le avrebbe chiesto: “e dove vai?”. E sarebbe stata la fine. Non poteva dirle la verità e non riusciva a mentirle.
“Che hai?”, Carlotta si scosse dalla propria fantasticheria per guardare Anna Maria. “Perché me lo chiedi?” rispose, già sulla difensiva. “Hai un’espressione strana, come se fossi arrabbiata... o spaventata. O tutte e due le cose”.
“Mi hanno fatto arrabbiare oggi in ufficio. Le solite cose”. Mentre rispondeva si rese conto del piccolo miracolo. Se voleva riusciva a mentire ad Anna Maria, certo, su cose secondarie, insignificanti. Ma poteva farlo.
Fu una sua collega che le diede l’idea.
“hai una faccia tremenda Carlotta da un po’ di giorni. Che hai?”
“dormo male, non so che mi prende” Carlotta rispose, ed era, in realtà una buona parte del problema.
“perché non prendi queste gocce? Le ho appena prese dalla farmacia. Se vuoi te le dò. Ci vuole la prescrizione, io me le vado a riprendere...”
“Oh... grazie Patrizia, quanto ti devo?”
“Ma niente, figurati... sei sempre così gentile quando serve un favore a me... è il minimo!”.
Quella sera Carlotta dormì come un sasso, non aveva preso le gocce, aveva solo risolto il problema.
Lesse attentamente il foglietto illustrativo del medicinale. Quella sera, dopo la cena, come al solito finita puntualmente alle otto e mezzo in modo che Anna Maria si potesse godere in santa pace il film su rai uno, Carlotta versò venti gocce di sonnifero nella tisana di sua madre.
Anna Maria si addormentò poco dopo i titoli di coda. Carlotta fece uno squillo a Enzo, per avvertirlo che sarebbe stata pronta in venti minuti.
Si preparò con cura, scegliendo ogni singolo capo tra quelli che aveva acquistato. Si pettinò i capelli e li raccolse, poi si accolse che la invecchiavano e la facevano somigliare ancora di più a sua madre. Li sciolse nervosamente e li arruffò con entrambe le mani.
Si mise poche gocce di profumo e uscì appena in tempo per evitare che Enzo suonasse il campanello.
Il giorno dopo Carlotta si alzò molto presto, per struccarsi ed eliminare ogni traccia della propria spavalderia prima che Anna Maria si svegliasse.
Alle sette e mezzo sua madre dormiva ancora. Carlotta si avvicinò alla porta della camera da letto per accorgersi che al solito respiro regolare di Anna Maria quando dormiva si era sostituito un affanno rauco.
Si avvicinò alla madre e prese a scuoterla, prima lentamente, via via sempre più forte finché si trovò a strattonarla urlando “mammaaaaaaaa!”.
L’ambulanza fu lì in pochi minuti. Anna Maria era riuscita a mettersi a letto e a spegnere la TV, poi un malore, qualcosa al cuore l’aveva fatta sentire male. Chissà se aveva chiesto aiuto, chissà.
Nel corridoio dell’ospedale Carlotta se ne stava su di una panca rannicchiata in un angolo, stringendo a sé la propria borsa. Era uscita di casa senza pettinarsi, si era vestita senza sapere che cosa indossava.
Il medico le aveva detto che sua madre rischiava la morte o danni permanenti al cervello. L’invalidità, insomma. Carlotta si sentiva come un cane che tentando di fuggire si strangola col guinzaglio.
Il medico uscì dalla sala e le andò incontro. Le poggiò le mani sulle spalle e la guardò negli occhi e disse la frase, chissà quante volte detta, ormai consumata, lisa agli angoli, una frase vecchia, una foglia secca sul pavimento di linoleum.
“coraggio”.
Carlotta scoppiò a piangere, piangeva per paura, per dolore, per disperazione, per disillusione,
Ma piangeva anche di rimorso, di colpa, di disgusto. Soprattutto di un invadente senso di liberazione.
A casa avrebbe gettato in una scatola gli abiti grigi, le scarpe ortopediche, i mutandoni sformati. Forse solo per ricomprarli uguali, ma non sarebbero stati gli stessi.