Ieri ho sentito al telefono un po' di amici che, più per inerzia che per altro, mi hanno fatto gli auguri. Persone con situazioni difficili, tristi, che gli altri giorni dell'anno sono più facili da sopportare. La sera di Natale sembra rendere più pesanti i dolori, le pene, le noie.
Non stupisce che molti drammi familiari esplodano la Vigilia. Tutta la retorica che parla di unità familiare, di amore, generosità, fa sentire maggiormente la pressione, la voglia di esplodere.
"Perché devo fare i regali quando non mi va? Che senso ha? Babbo Natale arriva per i bambini, ma gli altri? Perché devo infilarmi nel traffico a comprare cose - per lo più inutili - che solamente tra una decina di giorni mi costerebbero probabilmente la metà? Perché devo girare trenta minuti per un parcheggio, fare la fila alla cassa e fingere di essere contento di sbaciucchiare con effusione persone che per il resto dell'anno a malapena saluto?"
Le famiglie riunite a cena, devono tacere cose che tutti sanno ma devono fingere di ignorare. Lo facciamo per i figli, per i bambini, dicono.
E a me vengono in mente le recite natalizie. Sale gremite di genitori, molti trafelati, annoiati per la maggior parte del tempo, visto che la parte del pargolo dura, se va bene, cinque minuti. Ma devono stare lì, a ostentare natalizia allegria e gioia festiva. E penso all'ironia della sorte, per la quale un bambino ricambia con cinque minuti di esibizione, un anno intero di finzione familiare. Ma almeno lui lo fa con impegno e un po' ci crede.
Tanti auguri.