domenica 7 aprile 2013

La Caccia


Knut era partito dal villaggio alla fine della notte. Si era preparato con cura alla lunga assenza per il rituale. Ther-kah l’aveva vestito lei stessa con la reverenza che si deve a un anziano del villaggio e la devozione che si prova per lo sciamano. Il giovane corpo muscoloso della ragazza si muoveva come in una danza nella tunica di pelli cucite insieme che ogni tanto faceva balenare la pelle bianca e odorosa di muschio e di carne. Solo quando era certa di non essere osservata
sollevava lo sguardo verso Knut alto ed austero. Ma la capanna di pelli era angusta e spesso, con un sussulto, la ragazza toccava, senza volerlo, lo sciamano il cui copricapo sfiorava il tetto della capanna.
Per Ther-Kah e per tutti gli abitanti del villaggio Knut emanava mistero e magia. Aveva vissuto più a lungo di tutti ed era ancora forte e sano. Era stato lui ad accendere il primo fuoco per molti dei capifamiglia della tribù e aveva tatuato personalmente molti degli Agredut, i capivillaggio.
Ther Kah tremava mentre faceva scivolare premurosamente i pantaloni di pelle conciata sulle gambe tatuate di Knut. Dopo avergli infilato i calzari la ragazza prese con entrambe le mani la sopravveste di cotenne marrone brunito tenute insieme dai fili di tendine ingialliti e rimase per un istante con la veste sospesa davanti alla propria testa china, con le braccia vanamente tese. Non poteva chiedere a Knut di inginocchiarsi ma neanche infilare la sopravveste a un uomo tanto più alto di lei. Knut si accovacciò, lo sguardo fiero dei suoi occhi incassati nel viso, dritto innanzi a sé, il naso sottile sfiorò la fronte quadrata e piatta della ragazza che rabbrividì e continuò la vestizione in silenzio.
Knut si era allontanato dal villaggio accompagnato dal suono basso e ripetuto dei tamburi. La valle era immersa nella luce dell’ultimo quarto di luna. Le pendici delle montagne che nascondevano gli dei erano nere di ombre sottili. Il fuoco sacro lanciava i suoi ultimi bagliori al centro del villaggio illuminando di luce rossastra gli abitanti, ciascuno in ginocchio accanto alla propria capanna.
Knut avvolto nella mantella di erbe intrecciate, con in spalla la faretra, si allontanò lentamente nella radura. Aveva con sé frecce, quasi tutte preparate, un arco robusto, un’ascia, un pugnale ed un ramo di tiglio per rifinire gli utensili lungo il cammino.
L’alba fu rosa e il sole lentamente ascese. Knut guardò un’ultima volta la valle prima di allontanarsene. Aveva riempito d’acqua la gerla e di grano i recipienti di betulla che aveva con sé e si preparava alla sua lunga assenza alla ricerca degli dei.
A tratti tornava alla sua mente la visione che aveva avuto qualche notte prima. Sdraiato per terra bocconi con gli aghi conficcati sotto la pelle aveva visto prima il grande bre, il cervo rosso dalle grandi corna che si arrampicava sulla collina, poi aveva sentito le proprie membra irrigidirsi, divenire, fredde e dalla punta delle dita aveva cominciato a salire una nebbia bianca. Gli occhi serrati e chiusi, immoti, tutto precipitava in un baratro di bianca tenebra. A quel punto Knut senza occhi, Knut il sasso, aveva saputo che c’erano mille soli e mille ere, un orrore di abisso e di oblio.
Il giorno breve si stava già consumando, era stanco, si era inoltrato nella foresta di alte conifere e lo aspettava ancora un lungo cammino prima della montagna alta, dove avrebbe incontrato Etzaluk, lo sciamano dei sogni, che gli avrebbe rivelato il significato di quella strana apparizione. Si addormentò.
Si svegliò nel pieno dell’alba. Gli alberi fitti avevano protetto a lungo l’oscurità. Knut si mise rapidamente in cammino. Gli abeti lo affiancavano e lo fronteggiavano ad ogni passo e la foresta era un continuo frinire di uccelli, volare di foglie, gorgogliare di acque. Il freddo attanagliava lo sciamano nonostante le vesti calde e i tatuaggi di protezione. All’improvviso sentì un rumore. Istintivamente, afferrò una freccia nella faretra alle proprie spalle, la sfilò e la strinse fra i denti. Afferrò poi rapidamente il grande arco e ripresa la freccia si preparò al tiro. Il grande cervo gli fu davanti in un lampo, gli zoccoli sollevati e la testa regale all’indietro. Knut lo colpì esattamente al centro del petto.
Il cerimoniale per scuoiare il cervo era terminato. Si trascinava dietro il corpo pesante e ingombrante in una scia di sangue sempre più sottile. Arrivò alla pendice della montagna al tramonto e cominciò ad arrampicarsi a fatica, con la bestia sulle spalle. La visione gli tornò d’improvviso alla mente, quando sentì una fitta fortissima sotto la spalla sinistra. Si mise a riparo in una fenditura della roccia. Lasciò cadere il cervo e quando si toccò la schiena, aveva una freccia conficcata sotto una scapola. Il dolore era acutissimo, si sentiva sempre più debole e il braccio perdeva di sensibilità. Sentiva gli inseguitori sempre più vicini e si mise a strisciare sulla roccia in cerca di un rifugio.
La neve cominciò a scendere prima lenta poi sempre più furiosamente. Knut scivolò dalla roccia e finì nel lago sottostante. Sentiva il sangue fluire via mentre l’acqua fredda del lago cullava il suo dolore impotente. Knut lo sciamano stava morendo.

“Helmut, ne ho abbastanza di questo sentiero, facciamo una deviazione verso il lago”. Helmut guardò la moglie spazientito. Queste vacanze in montagna lo estenuavano ma per Erika erano una prova di sopravvivenza, Ogni mattina lo costringeva ad alzarsi all’alba, si infilavano una tuta da ginnastica e correvano a balzelloni intorno al vecchio albergo alpino. Lei altissima e magra, i biondi capelli corti perfetti, lo guardava con gli occhi sottili e il naso a punta con una specie di disapprovazione. Lui cercava di correre tenendosi il meno possibile stretto in vita l’elastico della tuta di flanella celeste pallido che lei gli aveva regalato. Era un uomo tondo, dai pensieri tondi. I suoi occhi erano azzurramente spalancati su sua moglie, quasi dipinti sul suo naso tondeggiante da buon borghese di Norimberga.
E quasi sempre lo portava fuori strada. Con Erika, era inevitabilmente una vita fuori strada. La seguì anche questa volta. Costeggiavano il grande ghiacciaio, quando Erika lanciò un urlo: “Là, guarda!”.
La testa e la spalle di un uomo emergevano dalla superficie gelata del ghiacciaio di Similaun.
Dopo 5000 anni Knut lo sciamano, Knut il sasso tornava tra la gente.

martedì 2 aprile 2013

Capire lo Zen


Vengo qui ogni mattina. Da lontano si vede la palazzina con i muri scrostati.
Mia madre mi ha proibito di avvicinarmi, ma io vengo lo stesso. Posso guardare da lontano.
Ci avevano detto che avremmo avuto  un appartamento, ma non l’abbiamo mai avuto. I picciotti ci hanno fatto capire che era meglio se ce ne stavamo nella nostra vecchia casa con la nonna e la nuova la lasciavamo a loro. A loro che se la sono venduta, anche se non gli apparteneva.

E io vengo qui ogni mattina. Esco di soppiatto, e rientro non visto.
Siamo rimasti nel nostro quartiere, tanto non sarebbe cambiato molto. La gente che è andata a vivere nelle nuove case ha più paura di me.
Io non ne ho tanta. Solo un poco.
Mi hanno spiegato che da grande la paura o ti passa o diventa una parte di te e non la senti più. Per cui io non saprò la differenza.
Una volta alla radio ho sentito che parlavano di Zen. Dicevano che era complicato da definire, che capivi o non capivi d'improvviso, insomma, parlavamo di illuminazione. A un certo punto mi è parso pure che dicessero che se pensavi di aver compreso era sicuro che non avevi compreso, ma che non era vero il contrario. E ho capito che la comprensione dello Zen è un po’ come la paura, non sai mai veramente se ce l’hai.
Però mi domando che c’entra lo Zen con questi palazzi grigi e tristi. Forse non capisco perché ho capito, o forse perché non ho capito.
So solo che la casa allo ZEN non ce la daranno mai.
Ma mi dicono che posso arrivare all’illuminazione con la meditazione.
Così ogni mattina vengo sulla collina, guardo lo ZEN da lontano e medito.
Forse un giorno capirò, anzi non capirò. 
E sarà tutto chiaro.