lunedì 25 marzo 2013

Lei ed io


E’ da te.
Sei sempre stato inopportuno e ipocrita. E ora che non ci sei più, della tua facciata sembra non importarti più nulla.
Eccoci qui, davanti al notaio, le due donne della tua vita. Lei e l’altra.
Io sono sempre restata l’altra. Per decenni, sempre l’altra.
Anche se oramai tutti sapevano, anche se la facciata era incrinata. Ma lei era lei e io ero l’altra.
Lei era quella delle feste comandate, delle vacanze, delle foto di gruppo.
Io quella delle feste in casa, delle fughe improvvise, delle foto… “per favore meglio di no”.
Ma, all'improvviso eccomi su questa strana ribalta. La tua malattia, forse, i mesi in quell’ospedale in cui io venivo a trovarti di nascosto, con la complicità di qualche amico. Ricordo il tuo sorriso pallido.
- Sei sempre bella.
Me lo dicevi quasi con dispiacere, con rabbia.
Non ci guardiamo io e lei.
Il notaio è imbarazzato, forse sa, o forse ha solo capito.
Lei è vestita di chiaro, quasi a rigettare il lutto, io di scuro, quasi a voler sparire, come sempre.
Dopo le formule di rito inizia a leggere i tuoi lasciti. Hai lasciato tutto in ordine come sempre e, alla famiglia, molto di più di quello che serve per campare. Poi sento il mio nome associato a un cospicuo vitalizio: “…per la sincera amicizia dimostrata in tanti anni di solido affetto”.
Sento il vomito salirmi in bocca, un sapore acido. Un pugno allo stomaco. La guardo, lei non mi guarda, è una statua di sale.
Il notaio mi scruta, cercando di capire. A me viene alla memoria una frase di una vecchia commedia napoletana: “I figli non si pagano”.
Mi alzo traballante dalla sedia. Mormoro, tra me e me, certa che in quella stanza sono l’unica in grado di capire:
- L’amore non si paga.
Mi giro, apro la porta e me ne vado.

Fuori l’aria è fresca, la primavera sta carezzando gli alberi.
Mi guardo in una vetrina, non sono più così giovane, ma sono sempre bella. E mi sento meglio.
Il tuo ultimo tradimento muore insieme a te.

sabato 23 marzo 2013

L'amicizia

Le amicizie più belle della mia vita sono nate in modo inaspettato, quasi per caso. Non sono stati colpi di fulmine, passioni improvvise. Sono stati incontri dai quali non mi aspettavo nulla, con persone poco affini, che credevo avrei perso di vista.Sono state come formiche che hanno saputo portare il loro peso con pazienza e dolcezza fino al formicaio. Sono entrate senza essere state invitate, dalla finestra più che dalla porta e sono rimaste nella stanza senza fare rumore, con il solo calore della loro presenza.Sono cresciute col tempo e le attese, non si sono bruciate in affetti sconsiderati, non si sono consumate in gelosie sterili. Restano nella mia vita come ombre luminose, consistenti e leggere.Come orme sulla sabbia che camminano a fianco a fianco e che il mare non potrà cancellare, la presenza di un amico sincero ci affianca senza mai sovrastarci o soffocare. L'unione più vera di amore e libertà.

martedì 5 marzo 2013

Il Creatore di Incubi



Il serpente grigio si muoveva sul pavimento facendosi strada tra migliaia di tarantole pelose che si rincorrevano impazzite. Il tanfo di sangue rappreso era quasi insopportabile. Joannes sapeva che se avesse tentato di uscire da quella stanza avrebbe trovato lei, con gli occhi ancora rossi e l’ascia grondante e l’avrebbe sentita emettere l’insopportabile urlo disumano.

L’unica salvezza era arrampicarsi sulla parete. Nella penombra arretrò, fino a quando non tocco una sporgenza fredda. Si voltò per tentare di trovare un appiglio sul quale muoversi. Istintivamente si trasse indietro. La parete era costellata di corpi umani in decomposizione, trafitti con dei pali d’acciaio che li fissavano al muro in un macabro disegno.
Decise di arrampicarsi ugualmente per arrivare alla piccola finestra in alto. Doveva muoversi velocemente, i corpi si sfaldavano sotto le sue mani e i suoi piedi e il tanfo era insopportabile, ma era l’unica via di uscita.
Fu allora che Merig lo svegliò.
- Allora Joannes?
Joannes ansimava, coperto di sudore, il cuore gli rimbalzava nel petto. Era un uomo piccolo, magro, ma con una grande energia fisica. I piccoli occhi azzurri erano ancora sbarrati per il terrore.
- Joannes, non abbiamo tutta la giornata. L’incontro con l’Inquisitore Capo è tra meno di un’ora!
Merig lo guardò ancora e non trattenne un sorriso di soddisfazione. Gli occhi marroni allungati si distesero a sottolinearne l’espressione. I lunghi capelli scivolavano ai lati del viso del Capo Torturatore, rendendo meno evidente il naso affilato e nascondendo le cicatrici che i ribelli gli avevano fatto anni prima, in un’invasione a sorpresa della sua casa, quando aveva da poco acquisito il titolo di Capo dei Torturatori di Stato. Una carica ambita e prestigiosa che lui aveva conquistato con sangue e sudore. Non suoi, ma questo era un dettaglio.

- A ogni modo direi che funziona, a giudicare dal tuo stato.
- Dovevamo fare la sperimentazione sui prigionieri, si era detto…
- Hai ragione, ma l’Inquisitore aveva fretta e poi mi fido di più di te. Quei bastardi magari ti dicono che sono stati malissimo e invece non è vero.
- Non possiamo fidarci di nessuno, concluse Joannes sconsolato.
Joannes lavorava con Merig da molto tempo, ma si era appassionato al suo compito di assistente al torturatore capo.
Il loro lavoro era selezionare gli strumenti di tortura più crudeli e raffinati da infliggere ai condannati per costringerli a parlare o, semplicemente, per rendere la pena più dura. Era un lavoro rischioso e anche doloroso alle volte. Le torture mentali, per esempio, qualche volta dovevano essere sperimentate direttamente su di lui, proprio per evitare che una cavia “fingesse” il dolore per far approvare uno strumento non sufficientemente efferato.
Il creatore di incubi sembrava perfetto. Generava un campo magnetico che interferiva con le onde cerebrali e produceva un’alternazione della fase REM del sonno. Tutte le persone che si addormentavano nel raggio d’azione della macchina avevano fasi REM prolungate, rispetto a un normale ciclo del sonno e, cosa ancora più interessante, popolate di incubi spaventosi, che attivavano ogni modalità sensoriale. Nei sogni si provava dolore fisico, si sentivano gli odori, era tutto come fosse vero.
L'inventore della macchina era Eren Fenter, uno studioso timido e modesto che aveva fatto la scoperta per puro caso mentre faceva una ricerca sui disturbi del sonno. Uomo riccioluto e paffuto, desiderava solo un’esistenza pacifica e una vecchiaia serena.
Aveva sperimentato la macchina su di sé e poi su un campione di volontari; i risultati erano stati terribili, alcuni di loro avevano avuto talmente paura che per mesi dopo avevano faticato ad addormentarsi. Uno aveva tentato il suicidio.
Eren stava per accantonare la macchina come completamente inutile, quando sua moglie, sempre alla ricerca di fonti di guadagno aggiuntivo per il marito, che riteneva un perfetto inetto dal punto di vista pratico, gli suggerì di proporla al Capo Torturatore.
Eren era riluttante, era un uomo di scienza che lavorava per il benessere dell’umanità e non per creare macchine per fare del male. Sua moglie vinse la sua resistenza con un martellamento continuo inframmezzato da: in fondo la nostra società funziona così. Chi sei tu per giudicare il nostro sistema di controllo? E a nostro figlio non pensi? Avrei dovuto sposare Ansel…
Il Capo Torturatore aveva esaminato il macchinario con interesse. Poi si era convinto, nessuno aveva avuto delle buone idee per torture mentali ultimamente.
Merig Eden muoveva le mani sul macchinario. Il Capo Inquisitore sarebbe stato soddisfatto. La prova generale del macchinario di tortura stava per iniziare, su un’intera camerata di prigionieri politici a cui era stato somministrato un blando sonnifero.
Anche Joannes era emozionato. Era sempre così quando si provava un nuovo strumento. Per sicurezza, i prigionieri erano stati legati al letto. Uomini e donne pallidi, emaciati, con segni di ferite, alcune non rimarginate sul viso e sul corpo. Erano ribelli, dissidenti che non volevano accettare le regole dello stato, la suddivisione in classi, che cercavano di diffondere la cultura, di stimolare la mente critica.
- Siamo pronti, disse Joannes, con un sospiro.
- Si dia inizio allora, l’Inquisitore Capo aveva pronunciato la frase in tono divertito e aveva guardato con sufficienza la camerata che si stendeva di fronte a loro. Una camerata, buia, silenziosa, dalle mura scrostate, che sembrava aver conservato memoria di ogni urlo, di ogni goccia di sangue.
- Non capisco, Merig guardò a lungo il macchinario, avrebbe dovuto funzionare e invece non aveva funzionato. I prigionieri si erano svegliati normalmente, dopo poco, guardandosi intorno spaventati come al solito, ma senza alcun segno di terrore, nessun alterazione fisica, né tachicardia, né sudore.
- Neanche io, rispose l’Inquisitore Capo – e non amo perdere tempo.
Il tono dell’Inquisitore era stato terribile. Merig sapeva bene che non era il caso di provocare la sua ira. Abbassò la testa.
- Cercheremo di capire che è successo e poi torneremo da lei.
- Dobbiamo riprovare la macchina.
A questa frase Joannes rabbrividì.
- Dobbiamo proprio?
- La proverò io Joannes, questa volta non voglio proprio rischiare.
Nonostante la velata critica Joannes tirò un sospiro di sollievo.
Merig si sdraiò sul letto.
- Aspetta che io mi sia addormentato e poi attiva la macchina.
Era molto agitato, il sonno non arrivava. Faceva fatica, si girava e rigirava sul letto sperimentale, sotto lo sguardo preoccupato di Joannes. A un certo punto sentì un rumore secco alla porta.
- E adesso che diamine succede, Joannes?
Joannes si voltò verso la porta dello studio che si spalancò. Dalla porta iniziarono ad entrare a uno a uno degli uomini magri, che trascinavano i passi, gli abiti sporchi di sangue rappreso ed emanavano un tanfo insopportabile. I loro piedi nudi lasciavano una scia di sangue. Avevano in mano delle asce, delle pinze, elettrodi, corde, bottiglie di acido. Qualcuno di loro esibiva dei denti di acciaio affilati. Si avventarono su Joannes per immobilizzarlo e poi si avvicinarono al letto su cui giaceva Merig, paralizzato dalla paura.
Li conosceva, li riconosceva, erano uomini che lui aveva fatto torturare nelle cantine della prigione, uomini cui aveva fatto sperimentare ogni genere di sofferenza. Erano evasi e dovevano essere venuti a vendicarsi, come i ribelli tanti anni prima. Merig tentò di scappare ma non riuscì a muoversi. In un attimo gli furono sopra. Riconobbe Ater, l’uomo a cui aveva fatto cavare un occhio qualche anno prima, aveva una pinza in mano e si stava avvicinando.
Eren Fenter era tornato a casa sereno. Il campo di disturbo magnetico aveva neutralizzato l’effetto del generatore di incubi. Non era stato difficile. Le pareti della camerata erano spesse, ma non abbastanza per fermare le onde del suo apparecchio per le interferenze. Così la prova era fallita e il suo macchinario non sarebbe stato utilizzato per torturare delle vittime innocenti.
Non avrebbe potuto sopportare di passare alla storia come l’inventore del “creatore di incubi”, preferiva restare oscuro. E poi, era già stato pagato.

Il medico scosse la testa.
- Mi spiace Joannes. E’ in coma irreversibile.
- Cioè…
- Non si sveglierà mai più, resterà così fino alla morte.
- Quindi anche per molti anni…
- Certo, Merig è un uomo robusto. Le nostre leggi prevedono che venga tenuto in vita, casomai venga fuori una qualche cura. Ma nel suo caso, non ci sono molte speranze. Mi spiace.
- Era come un padre per me…
- Capisco. Si faccia forza. E poi, credo che ora il posto di Capo Torturatore sia suo.
Joannes sorrise soddisfatto per un istante. Poi si voltò a guardare Merig. Il viso contratto, non sembrava in coma. Ma non si sarebbe più svegliato.
Merig Eden sarebbe rimasto così, incastrato nel suo ultimo sogno.

Fino alla morte.