domenica 27 ottobre 2013

La bambina con le trecce

Andavo a messa tutte le domeniche quando ero bambina.

Le mie amiche erano compunte, deliziose, con i nastri nelle chiome. Io ero magrissima, smunta, pallida, piena di lentiggini e malinconica.

Mia madre mi acconciava i capelli in due trecce leggere -avevo i capelli sottili, allora – all’estremità delle quali annodava piccoli elastici con delle sfere di legno colorate.

I capelli mi tiravano sulla testa, mi facevano male, e sotto la frangia la mia faccia da topo sembrava ancora più buffa; accettavo la pena con rassegnazione, sapevo che le trecce erano l’unico modo di evitare che i miei capelli si annodassero e di piangere quando venivo pettinata.

Quando sedevamo in chiesa, le mie amiche si guardavano il vestito della domenica, il mio raramente era bello, non ci potevamo permettere grandi lussi, ero l’ultima di cinque figli e solo mio padre lavorava, ma non mi importava, il mio sguardo era fisso sull’altare, ero attenta a ogni momento, mi commuovevo a ogni istante.

Mi sembrava di vedere la luce di Dio filtrare dalle vetrate colorate di quella chiesa di periferia, dagli arredi scarni, in cui l’odore dell’incenso mi faceva pensare che in qualche modo respiravo la salvezza.

Quando avevo fatto il catechismo per la prima comunione ero l’unica che ascoltava, l’unica che faceva domande, che chiedeva il senso delle parole delle preghiere.

Ora mi rendo conto che mettevo in difficoltà quelle volenterose liceali che a volte mi guardavano con tenerezza, a volte con insofferenza, ma mai con un vero fastidio.

Crescendo le  mie domande erano cresciute con me.  A scuola durante l’ora di Religione, le mie amiche ripassavano le altre materie, schizzavano cuori sui diari, io mi sedevo accanto al professore e gli facevo domande.

Un giorno gli domandai: “Don Pasquale, ma lei non vede contraddizione tra libero arbitrio e onniscienza divina?”.

Mi fissò con i suoi occhi azzurri buoni, nel viso circondato dalle rughe. Dalle mie parti i preti erano spesso anche contadini, con la pelle cotta dal sole.

“Perché non ripeti Matematica, come stanno facendo le tue amiche?”.

Fu allora che capii davvero, per la prima volta, che chi cerca risposte è solo.

Man mano che andavo avanti le rispose che trovavo mi piacevano sempre meno. L’omelia iniziò a sembrarmi violenta. Le imposizioni della morale sessuale irragionevoli e innaturali. L'opulenza del Vaticano, i diktat politici, la misoginia, ingiuste.

Vedevo attorno a me i sedicenti cattolici trattare la religione come un’insalata, il matrimonio in chiesa sì, ma il divieto dei rapporti prematrimoniali no, il battesimo sì, il divieto degli anticoncezionali no, ecc.

Perché? Mi domandavo. Che senso ha? Dio se esiste non può volere questo, non può volerci imprigionare nell’obbligo dell’incoerenza.

Così decisi di farlo.

Un giorno qualunque quando mi è arrivata la lettera della Diocesi, in cui il mio “sbattezzo” veniva confermato,  a meno che non ci avessi ripensato. Mi invitavano comunque al dialogo col Vescovo. Ci ho pensato, a dire il vero. Ho rivisto me stessa sul banco di scuola mentre le mie amiche chiacchieravano, durante l’ora di Religione, le persone durante la messa, scambiarsi SMS, chiacchierare tra loro, far squillare il telefono, spendere migliaia di Euro per un matrimonio in Chiesa, invece di darli in beneficenza.

Ho ripensato alla serietà con cui avevo preso la Prima Comunione, quanto avevo sentito la Cresima.

Ero stata tradita. Ma da chi? Da che cosa? E perché? Forse è necessario perdere le persone come me, per tenere tutti gli altri.

Ho guardato di nuovo la lettera nella mia mano, una lettera che mi diceva, in qualche modo, che non ero più come loro. Un ultimo sguardo dentro di me alla bimba smunta, con i pantaloni di fustagno e la maglia a righe, la testa china nella preghiera.

Le ho carezzato dentro di me le trecce sottili, e ho chiuso tutto in un cassetto. Per sempre.

domenica 5 maggio 2013

Così era scritto


L’avevano vista tutti. Tina si reggeva a malapena in piedi. Si guardò, per un istante, le mani sporche di sangue. Stringeva ancora il coltello col quale aveva colpito (quante coltellate: quattro, dieci, cento?) con inaudita violenza l’uomo che tutti avevano visto chino su di lei per picchiarla, darle pugni. Massacrarla.
Tutti la conoscevano, tutti sapevano di lei all’ospedale dove si era ricoverata un paio di volte, “dopo essere caduta dalle scale”, e al cui pronto soccorso le infermiere la chiamavano per nome; alla stazione dei carabinieri di fronte alla quale aveva spesso sostato, livida, con gli occhi pesti, senza avere il coraggio di entrare.
Tutti conoscevano Tina Lonigro, venticinque anni, quattro di matrimonio assieme ad un uomo brutale e violento. Le donne del quartiere l’additavano compassionevoli.
Tutti sapevano, tutti avevano assistito.
Per questo l’avrebbero assolta.   
Solo sei anni prima, un’eternità, Tina aveva conosciuto Francesco. Il sogno di ogni ragazza. Il più bello del paese, ventidue anni, la macchina  sportiva ultimo modello, un futuro brillante, studiava da avvocato. I suoi occhi scuri trafiggevano, e le donne del paese si sentivano mancare al suo sguardo ironico e scanzonato. Francesco si era accorto di lei e a Tina non era sembrato possibile: era un sogno, lei così insignificante.

Tina insignificante non lo era per niente, alta bruna e slanciata, suscitava rigurgiti ormonali finanche nei più imperturbabili. Persino Don Antonio, il parroco del paese, misogino e ricurvo per l’età, per gli studi e per tutte le volte che si era dovuto piegare in preda ai crampi per sedare l’autoerotismo, si segnava al passaggio di Tina. Una donna così sanguigna, incarnazione del demonio era.
Francesco le era stato presentato ad una festa da Filippo, un amico innamorato di lei da tempo immemorabile. Francesco si era subito appartato con lei, senza neanche una scusa, e aveva cominciato a parlarle a mezza bocca sussurrandole frasi di poco senso che erano esattamente ciò che Tina, che era innamorata di lui da sempre, voleva sentire.
Innamorata da sempre, non era un modo di dire, c’è un archetipo nel cuore di ogni donna, serbato gelosamente, una custodia di senso e emozione, uno scrigno che attende di essere riempito, una forma pronta al gesso caldo di un sembiante. Per Tina era Francesco.
Era cresciuta in un ambiente volgare, tra l’odore aspro della gazzetta dello sport, il lezzo pungente delle pagine rosa e nere, appena stampate e della cenere delle sigarette spente nei piattini; con dinanzi agli occhi l’ombra lattiginosa dei residui dei boccali di birra nel bar paterno.
Francesco era, ai suoi occhi, l’antitesi del mare di fango dal quale voleva evolversi, lei, anfibio grigiastro a guadagnare la luce e la terraferma. Le unghie curate, il sorriso dei denti bianchissimi: Francesco non aveva proferito una sola parola in dialetto. La sua cadenza era dolce, e sapeva canticchiare le parole della canzone inglese in sottofondo. Ogni tanto sottolineava una frase col tono, guardandola fisso negli occhi.

Stavano insieme solo da qualche mese ma Tina sapeva, sentiva, che sarebbe stato per sempre. Francesco nel giro di un anno, un anno e mezzo si sarebbe laureato poi, il tempo del praticantato e avrebbe cominciato a lavorare nello studio del padre. A quel punto si sarebbero sposati, all’inizio avrebbero fatto un po’ di sacrifici, ma poi lei sarebbe stata la moglie del famoso avvocato De Nicola.
Francesco era stato il primo per lei, doveva restare l’unico.
Sua cugina Marina era andata a trovarla un sabato pomeriggio del mese di giugno. Era una giornata precocemente torrida. Tina era seduta sul balcone di casa a prendere il sole, sorseggiando una limonata. Il sapore dello  zucchero le solleticava la lingua. Marina parlava, quasi senza prendere fiato, gli occhi illuminati, i capelli biondi, tirati indietro da un groviglio informe di fermagli, il rossetto scuro sottolineava i movimenti a scatto delle labbra.
- Insomma... non ti dico bugie... pari pari! Lei mi ha detto che avrei passato l’esame di Scienze, ma per quello di Fisica avrei dovuto aspettare il mese di maggio: così è stato! E questo è niente... mi ha detto che mi sarei fidanzata non con un ragazzo del  paese ma con uno di fuori, di ventiquattr’anni col nome che comincia per “Gi”. Beh... non ti dico bugie, dopo due mesi, che manco mi ricordavo più, a momenti... ho conosciuto Giuseppe che, come sai, è di Formia e ci siamo fidanzati... E’ da brivido questa!
Tina spalancò gli occhi, curiosa era curiosa, e poi chissà, lei non si era mai sentita troppo sicura dell’amore di Francesco. Era troppo bello per essere vero, per essere capitato proprio a lei. Poi Marina non era una stupida, tra le sue cugine era l’unica che frequentasse l’Università. Era sempre stata la prima a scuola, quella con i voti più alti. Ora andava spedita, e per giunta ad una facoltà scientifica. Certo, l’esame di Fisica le era andato male. Un errore capita a tutti.
-  Dai, ti ci porto! Ci andiamo venerdì. Sarà il mio regalo di compleanno. Lo vedo che ci vuoi venire...
Aveva riso Tina. Ma aveva accettato. Non sapeva che quel pomeriggio di giugno, un pomeriggio odoroso di asfalto bagnato dalla pioggia estiva, avrebbe segnato il resto della sua vita.


Ilejana era un’Armena di circa quarant’anni. I suoi lineamenti erano marcati ed intensi, le sopracciglia scure, due archetti  morbidamente convergenti alla radice del suo naso, un naso affilato che spuntava ad ombreggiare labbra colorate di rossetto carminio.
Da lei si propagava una fragranza intensa ed improbabile, un miscuglio di cedro e citronella che adombrava memorie remote d’insetticidi e di barbieri all’orario di chiusura.
Tina entrò seguendo Marina che sgusciava nel soggiorno di Ilejana sfoderando una familiarità quasi sfacciata. Si rivolse quindi alla donna dandole del tu, cosa che a Tina, che quasi tremava, diede un senso immotivato di gravità.
- Questa è Tina, mi raccomando dille cose belle che se no mi si spaventa...
Marina scoppiò a ridere. Tina la fulminò con lo sguardo.
Ilejana porse a Tina una tazza larga colma di  un liquido scuro, quasi melmoso.
- E’ già zuccherato - disse la donna porgendole la tazza fumante.
- E’ caffè turco - Spiegò Marina con fare saccente.
La donna riprese, guardando Tina fissa negli occhi, inchiodandola con le proprie pupille quasi confuse nell’iride scurissima:
- Lo devi bere, pensando bene a quello che vuoi, lascia appena un fondo. Poi devi rovesciare la tazza sul piattino. Al resto ci penso io.
Quindi, rivolta a Marina, soggiunse:
- Tu devi uscire
Marina sembrò stupita e seccata, ma il tono perentorio le tolse ogni velleità di reazione. Uscì rapidamente dalla stanza.
Tina sorseggiò il liquido dal sapore sgradevole. I grani di caffè non filtrato le graffiavano la gola. Sorseggiò il liquido fino a quando la densità non divenne insopportabile e poi poggiò la tazza rovesciata sul piattino.
Per tutto il tempo aveva pensato solo a Francesco, al loro matrimonio, a se stessa sull’altare col proprio abito bianco, il velo poggiato sui capelli raccolti in un intreccio di fiori, al loro primo bambino...
La fantasticheria in cui Tina si era persa svanì, interrotta dalla voce di Ilejana, arrochita da cento sigarette, con un accento ombroso, accento dell’Est, che così spesso Tina aveva ascoltato al telegiornale.
- Nella tua vita vedo un Cancro e un Leone, questi sono buoni per te e ti fanno del bene. 
Tina spalancò gli occhi: suo padre era del Cancro e sua madre del Leone. Entrambi l’adoravano.
- C’è stato un uomo nel tuo passato. Non è buono per te. Uno della Vergine che comincia per “C”. Hai fatto bene a lasciarlo. Ora va tutto bene, quel problema di salute che hai avuto non si presenterà più, tutto a posto. Però, figlia mia, qui ci sta una cosa grossa... una cosa brutta.
Tina trattenne il respiro tutto quello che la donna aveva detto fino a quel punto era vero. Neanche Marina sapeva di Carlo, amico di famiglia, il commercialista del padre, della Vergine, che aveva preso a corteggiarla e che lei, dopo un’iniziale disponibilità, aveva respinto.
Tina, per di più, aveva sofferto a lungo di un fastidioso problema intestinale, che da un po’, effettivamente, non le dava più fastidio.
Infine, nella sua vita era ormai entrato Francesco.
- Ora, da poco, ci sta un uomo dello Scorpione, uno che ti piace veramente e che comincia per “F” - Ilejana fece una pausa - Tu ti sposerai, come tu sogni: ma tuo marito morirà, poco dopo le nozze. Così è scritto, non ci puoi fare niente.
Ilejana guardava nella tazza; le ciglia, irrigidite di mascara nerissimo, sembravano aghi acuminati. Non un’esitazione tradita dalla voce, non un attimo d’incertezza.
-  Come?

- Hai capito bene, bella mia. L’uomo che sposerai morirà. E senza neanche farci  un figlio. Così èscritto. Dipende dal karma. Sai che cosa è il karma? E’ il destino ineluttabile, ciò che siamo chiamati ad apprendere in questa vita, e tu sei stata fatta bella per attrarre l’uomo che vuoi, e il destino vuole che tu provi l’atroce dolore della sua perdita.
Tina si alzò di scatto, le labbra le tremavano.
- Basta! Non ho più voglia di sentire queste stupidaggini! Quanto le devo?
Ilejana sorrise mestamente, lo sguardo grave.
- Mi dispiace assai. Da te non voglio niente.
All’uscita aveva strattonato per un braccio sua cugina che l’aveva guardata come se fosse uscita di senno e insieme si erano dirette verso la macchina, parcheggiata in uno spiazzo, poco distante. La pioggia cadeva sottile. Tina, meccanicamente, si asciugava il viso con le punte delle dita.
Durante il tragitto per il ritorno non aveva detto una sola parola. Era rimasta immobile sul sedile del passeggero stringendo la cintura di sicurezza, che le serrava il petto, con entrambe le mani.

Marina aveva cercato in tutti i modi di capire che cosa fosse successo, Tina si era chiusa in un mutismo impenetrabile. La sera non aveva cenato. Si era fatta negare a Francesco che le aveva telefonato, non aveva voglia di parlare con nessuno, men che meno con lui.
Era andata a letto presto, prestissimo, ed era rimasta immobile sotto le coperte a guardare il soffitto.
Il pensiero che Francesco, diventato suo marito, potesse morire la riempiva di un dolore assoluto. Le sembrava che volessero strapparle un braccio, il cuore, il fegato, le sembrava che volessero toglierle una parte di sé.
Ma soprattutto, la terrorizzava un’idea: se qualunque uomo avesse sposato era destinato a morire, lei sarebbe stata un’assassina. Perché lei sapeva.
Tina immaginava la propria vita in solitudine, si vedeva uguale a tutte le zitelle che conosceva, sospese, per sempre, in un vortice di non esistenza. Vedeva se stessa passare il resto della propria vita dietro il bancone del bar di fronte al municipio, lasciar sfiorire la propria gioventù e avvenenza, ridotta a cercare l’attenzione degli autotrasportatori di passaggio.
Ruppe in un pianto disperato.


Da quella sera, si fece sempre negare a Francesco. Il farlo la lacerava ma le sembrava, ormai, l’unica possibilità. L’unico modo per salvare Francesco e quindi se stessa.Era ridotta ad una larva, non riusciva quasi più a mangiare ed era perseguitata dall’insonnia. Al risveglio dalle poche ore che riusciva a dormire, le sembrava sempre di aver sognato la morte di Francesco, anche se non riusciva a ricordarlo. Ma Francesco non si dava pace.
Fu per questo che Tina ricominciò a dar corda a Carlo.
Carlo era amico di famiglia, da qualche tempo il commercialista di suo  padre, un uomo piacente e benestante, che aveva dieci anni più di lei. Per un certo periodo Tina aveva trovato gradevoli le sue attenzioni. Dopo aver conosciuto Francesco, però, la presenza di Carlo le risultava quasi fastidiosa, insopportabile.
Date le circostanze, le sembrò che la cosa  migliore per far mettere l’anima in pace a Francesco fosse fidanzarsi con Carlo.
Carlo, rispetto a Tina era un uomo navigato e vissuto, ma Tina aveva un asso nella manica: non era innamorata di lui.
Una donna non innamorata può far fare ciò che vuole all’uomo che la desidera. Una donna non innamorata è un essere pericolosamente consapevole del proprio potere.
Carlo era completamente soggiogato da quella ragazzina bizzosa che cambiava idea, apparentemente, nel verso in cui girava il vento, che lo voleva accanto a sé un minuto ed il minuto successivo non voleva neanche sentire la sua voce. Un uomo a cui la donna che desidera non dà neanche un punto di riferimento è un uomo perso.
Tina cominciò ad odiare Carlo: fu una sequela di eventi indistinti e impercettibili. L’odio si era
sedimentato dentro di lei come i sali di calcio in una stalagmite, impercettibilmente, giorno dopo giorno.
Quando Carlo le chiese di sposarlo provò un sentimento simile al trionfo del cacciatore che vede cascare nella trappola la preda facile, cacciata esclusivamente per diletto, anzi, per noia.
La sera in cui Carlo, con la voce rotta dall’emozione, e arrossendo, con l’aria buffa di un bambino timido, che recita in piedi,  sulla sedia del soggiorno, la poesia di Natale, le aveva proposto di diventare sua moglie, era tornata a casa dal ristorante assaporando un trionfo cinico, senza allegria.
Gli avrebbe detto di no, certo, lo avrebbe umiliato, lo avrebbe fatto sentire l’ultimo dei vermi. Sarebbe morto dall’umiliazione. Sarebbe morto... sarebbe morto...
E se fosse morto? Se Carlo fosse morto dopo il matrimonio? Lei sarebbe stata libera, avrebbe potuto cominciare una nuova vita, avrebbe potuto riprendersi Francesco. Certo, sarebbe stato difficile all’inizio farsi perdonare, ma poi lui avrebbe capito lei gli avrebbe spiegato, lui le avrebbe creduto.
In fondo non faceva nulla di male. Tina cominciò a mentire a se stessa, come la maggioranza degli esseri umani quando decidono di fare cose immorali. Era Carlo che insisteva a volerla sposare. In fondo avrebbe avuto ciò che voleva, lui sapeva che lei non lo amava. Sarebbe stato felice, avrebbe ottenuto quello che voleva, ogni cosa ha il suo prezzo, no? E se Ilejana si fosse sbagliata? In fondo tra i due, era lei quella che ci perdeva di più. Era tutto basato su di una macchia sul fondo di una tazza di caffè. Una probabilità magari remota.
Tina non avrebbe mai potuto rischiare di essere la causa, seppur indiretta, della morte di Francesco. Ma con Carlo era un’altra cosa. L’avrebbe sposato e se poi la predizione si fosse avverata, bene (Tina ebbe, suo malgrado un brivido) se non si fosse avverata... pazienza, avrebbe divorziato e sarebbe stata libera a quel punto, comunque.
Per la prima volta, dopo mesi, dormì serenamente. Il giorno dopo disse di sì a Carlo ed annunciò al resto della famiglia che lo avrebbe sposato la domenica successiva, durante il pranzo.
Il padre era entusiasta, sua madre la guardò intensamente e non disse nulla. Nel pomeriggio si affacciò nella stanza di sua figlia che leggeva  una rivista, sdraiata sul letto.
- Tu hai qualcosa in testa – le disse - Non so che cos’è ma so che non mi piace. Ami ancora Francesco e per te Carlo non è nessuno. Che vuoi fare?
- Ma che dici mamma? Sono felice e basta. Carlo è l’uomo giusto per il matrimonio.
Tina rispose continuando a tenere gli occhi sulla rivista mentre cercava di controllare il tremito delle mani. Non aveva mentito.

Il matrimonio fu semplice e organizzato rapidamente: entrambi gli sposi lo desideravano. Tina aveva scelto un appartamento non lontano dallo studio del padre di Francesco. Non si poteva mai sapere, un domani...
Dopo il matrimonio, la donna che Carlo si trovò accanto non era affatto differente da quella che aveva visto durante la loro lunga frequentazione e breve fidanzamento.
Una giovane moglie bella e sensuale, dai modi cortesi, che si trasformava in una statua di ghiaccio quando lui le si avvicinava per toccarla, abbracciarla o baciarla. Questo esasperava il desiderio di Carlo che si era, col tempo, abituato a fare sesso con un manichino morbido e consenziente.
Tina faceva la moglie e aspettava. All’inizio sobbalzava ogni volta allo squillo del telefono e rispondeva trepida, pensando che sarebbe stata la volta buona.
Poi, piano piano la sua speranza si era affievolita. Il tempo passava.
Passava le giornate in casa, o dal parrucchiere e dall’estetista, voleva essere bella per Francesco, voleva renderle impossibile resisterle quando lei si fosse presentata a lui.
Dopo due anni di matrimonio la presenza di Carlo era diventata quasi esasperante, le dava fastidio tutto di lui, dalla maniera in cui si allacciava le scarpe la mattina, al dopobarba che usava. Trovava  intollerabile il  modo in cui lui si portava il cibo alla bocca e il gesto col quale usava la salvietta per pulirsi le labbra.
Era disgustata dal trovare l’asse del water sollevato quando lui usciva dal bagno e le strisce del dentifricio nel lavabo dopo che si era lavato i denti.

Dopo due anni e mezzo di matrimonio scoprì di essere rimasta incinta. All’inizio aveva sperato in un banale ritardo, ma poi si era accorta con orrore che si trattava di  una gravidanza.
Quando si era accorta delle due barrette rivelatrici, sull’asticella del test, era stata presa da un attacco isterico, aveva cominciato ad urlare,  graffiarsi e darsi pugni sulla pancia.
Ricordava bene le parole di Ilejana:
L’uomo che sposerai morirà. E senza neanche farci  un figlio”. E ora, questa gravidanza. Pensò al figlio che portava dentro di sé: figlio suo e di Carlo. Le parve una mostruosità, che dei mostri alieni l’avessero invasa e la stessero divorando dall’interno.
Raccontò a Carlo che doveva andare a trovare Marina, per qualche giorno. A Marina chiese di reggerle il gioco, le disse che voleva fare una piccola plastica al seno e che non voleva che Carlo ne sapesse nulla.
L’interruzione di gravidanza non fu difficile, era una donna molto giovane e si riprese in fretta. Al ritorno  a casa trovò Carlo ad aspettarla inquieto.
- Dove sei stata?
- Da Marina, te l’ho detto.
- Stai mentendo
- Non mento, lo sai.
Carlo la vide bellissima, altera e pallida. Sua moglie, davanti a lui, come nel suo letto tutte le notti: intima e irraggiungibile.
La prese per un polso e la colpì in pieno viso con uno schiaffo. Tina vacillò sotto il colpo ma non disse nulla, girò sui tacchi e andò a chiudersi in camera da letto.
Carlo passò tutta la notte dietro alla porta a supplicarla di farlo entrare. La mattina dopo Tina aprì la porta della stanza da letto, perfettamente truccata e pronta per uscire, passò davanti a Carlo sdraiato sul divano senza dire una parola.

La vita matrimoniale era ripresa normalmente. Tina prendeva la pillola di nascosto. Carlo insisteva per fare controlli per la sterilità ma Tina ribatteva che lei era talmente giovane che  non era il caso di darsi pensiero, e ad ogni modo era presto, per il momento potevano godersi la vita.
Carlo annuiva anche se non gli era chiarissimo a quale tipo di piaceri Tina facesse riferimento. La presenza di Tina in casa era carica di degnazione, lui sentiva che, in qualche modo, il solo fatto che sua moglie fosse lì, accanto a lui, fosse per lei uno sforzo e per lui un privilegio.
La telefonata decisiva Tina la ricevette una mattina di febbraio, la voce era quella di Filippo, il suo vecchio amico, ancora innamorato di lei.
- Come va?
- Tutto bene – rispose Tina, meccanicamente – e tu?
- Bene anch’io. E Carlo?
- Bene anche lui: Filippo, devi dirmi qualcosa?
Tina conosceva Filippo e l’inizio telefonata così formale, era sospetto.
- Indovina chi si è fidanzato?
Tina aveva indovinato subito, forse ancor prima della domanda, la risposta. Fece l’indifferente. Mostrò di ricordare la storia tra lei e Francesco come una storia tra ragazzini. Il cuore le martellava nelle orecchie e non vedeva l’ora di troncare la conversazione.
Non appena ebbe riagganciato, Tina corse al bagno a vomitare. Si era buttata in ginocchio, aggrappata al bidet, e singhiozzava.
Francesco non la stava aspettando. Questo rendeva tutto molto più complicato. Doveva sbrigarsi prima che fosse troppo tardi, si era appena fidanzato, era ancora in tempo. Che aspettava Carlo a morire? Carlo doveva morire!!!
Davanti a lei sfilarono le immagini del suo fidanzamento con Carlo, del suo matrimonio, di tutte le volte che Carlo l’aveva toccata e lei aveva sopportato tutto persino che lui l’avesse picchiata... solo per salvare la vita di Francesco!
Si rialzò e si sciacquò il viso, sollevò lo sguardo e rimase qualche istante a guardare la propria immagine allo specchio. Si diresse in soggiorno. Prese un posacenere pesante dalla mensola del camino e cominciò a colpirsi. Resisteva al dolore mordendosi le labbra.
Quando fu sufficientemente tumefatta, si precipitò al pronto soccorso. Disse che era cascata dalle scale.
Non le credettero.
Carlo invece le credette, la accarezzò e le disse che doveva stare attenta, che si strapazzava troppo. Tina cominciò ad urlare, che era stufa di fare tutto lei, di stare sempre sola, che lui era un egoista.
Anche Carlo cominciò ad urlare per calmarla.
Il giorno dopo Tina si fece vedere in giro nel quartiere, tumefatta e zoppicante. A chi le chiedeva che cosa fosse successo, rispondeva, abbassando, lo sguardo, che era caduta dalle scale.
Ma nessuno le credeva.
Tina aveva imparato come farsi grosse ecchimosi senza sentire troppo male, si era anche buttata dalle scale veramente, un paio di volte, rischiando di spezzarsi una gamba.
A Carlo aveva detto di essere in cura da un neurologo per disturbi dei centri dell’equilibrio e della deambulazione. Suo marito, preoccupato, si era offerto di accompagnarla dal medico; Tina aveva cominciato ad urlare che voleva occuparsi lei di se stessa, e che era stanca della sua sfiducia.
I medici del pronto soccorso ormai la conoscevano. Le infermiere la accudivano amorevolmente e lanciavano ogni sorta di maleficio contro quei bastardi degli uomini pronti ad approfittare di una giovane donna inerme.
Qualche volta, la sera, Tina camminava dalle parti della stazione dei carabinieri e restava per qualche minuto sul marciapiede di fronte, con la testa bassa, alzando solo gli occhi, ogni tanto, in un guizzo selvaggio, finché qualcuno non la notava, e allora andava via.
Se lei e suo marito uscivano insieme, Tina si teneva leggermente indietro a Carlo, con lo sguardo basso. Carlo finiva per spazientirsi e la prendeva per un braccio, insofferente, per farla avvicinare.
Lei gli gettava un’occhiata inquieta e riprendeva a camminare aggrappata al suo braccio, talvolta vacillante, come se le gambe non la reggessero.
Spesso la sera li udivano litigare. Soprattutto era chiara la voce di Tina che urlava disperata. Poi la sentivano singhiozzare dalla finestra del bagno.
Si era confidata con la moglie del macellaio del quartiere, che le portava la carne a domicilio, perché spesso Tina si sentiva troppo debole per uscire: Carlo era un uomo meraviglioso ma esasperato perché desiderava disperatamente un figlio e lei non riusciva a darglielo. Lei era anche rimasta incinta, una volta, ma poi, era cascata dalle scale, quella scalinata maledetta, così ripida... e aveva perso il bambino.
Tina era scoppiata in un pianto sommesso e disperato. La moglie del macellaio aveva capito. Tutti quelli del quartiere avevano capito. Che brutta situazione. Bisognava convincere Tina a denunciare quel mostro del marito, ma lei era troppo innamorata, si vedeva.
La figlia del farmacista, Luisa, che si stava laureando in Psicologia, l’aveva detto, si trattava di un caso chiaro di “Sindrome di Stoccolma”: una simbiosi patologica tra vittima e carnefice.

Era un sabato all’ora di pranzo, il quartiere era calmo. Molti negozianti erano nel bar a mangiare un panino in fretta.
Tina aspettava il rientro di Carlo, seduta al tavolo della cucina, si era colpita più volte con del ghiaccio avvolto in uno strofinaccio, poi con il coltello si era fatta delle piccole ferite e si era sparsa il sangue sul collo, sul viso e sulle mani.
Carlo era rientrato per il pranzo e vedendola era rimasto senza parole.
- Ma... ma che hai fatto?
Tina aveva preso ad urlare:
- Che ho fatto? Che hai fatto tu! Guarda come mi hai ridotta... sei un maniaco, sei un pazzo...
- Tina calmati, calmati...
- Non mi toccare! - lei aveva continuato ad urlare - non toccarmi mai più o mi ammazzo!
Tina aveva il coltello tra le mani, cominciò a correre verso le scale, inseguita da suo marito.
- Tina, fermati... fermati!
Tina era ormai per strada:
- Aiuto! Aiuto, mi ammazza!
Carlo la raggiunse la prese per i polsi. Lei si gettò in terra trascinandolo con sé e continuando a urlare:
- Aiuto! Aiuto...
Mentre Carlo tentava di immobilizzarla, Tina riuscì a divincolarsi e a colpirlo prima ad un fianco e poi all’addome. Continuò a scagliarsi con ferocia, anche sul corpo ormai immobile, col sangue che le schizzava sul viso, sugli abiti, che le inzuppava le mani.
Qualcuno l’aveva infine afferrata per le spalle, un’altra mano decisa, le aveva preso saldamente il polso e le aveva tolto dalle mani il coltello da cucina.
La moglie del macellaio, le avvolse le spalle con qualcosa, forse un asciugamano.
- Coraggio signora, è tutto finito.
Tina si sollevò da terra barcollando e guardò la signora accanto a sé e il cadavere ai propri piedi. Sì, è finita. Pensò. Tutti hanno visto tutto. Tutti sanno.
Lasciò andare il coltello, che cadde, senza rumore, nella pozza rossastra.


domenica 7 aprile 2013

La Caccia


Knut era partito dal villaggio alla fine della notte. Si era preparato con cura alla lunga assenza per il rituale. Ther-kah l’aveva vestito lei stessa con la reverenza che si deve a un anziano del villaggio e la devozione che si prova per lo sciamano. Il giovane corpo muscoloso della ragazza si muoveva come in una danza nella tunica di pelli cucite insieme che ogni tanto faceva balenare la pelle bianca e odorosa di muschio e di carne. Solo quando era certa di non essere osservata
sollevava lo sguardo verso Knut alto ed austero. Ma la capanna di pelli era angusta e spesso, con un sussulto, la ragazza toccava, senza volerlo, lo sciamano il cui copricapo sfiorava il tetto della capanna.
Per Ther-Kah e per tutti gli abitanti del villaggio Knut emanava mistero e magia. Aveva vissuto più a lungo di tutti ed era ancora forte e sano. Era stato lui ad accendere il primo fuoco per molti dei capifamiglia della tribù e aveva tatuato personalmente molti degli Agredut, i capivillaggio.
Ther Kah tremava mentre faceva scivolare premurosamente i pantaloni di pelle conciata sulle gambe tatuate di Knut. Dopo avergli infilato i calzari la ragazza prese con entrambe le mani la sopravveste di cotenne marrone brunito tenute insieme dai fili di tendine ingialliti e rimase per un istante con la veste sospesa davanti alla propria testa china, con le braccia vanamente tese. Non poteva chiedere a Knut di inginocchiarsi ma neanche infilare la sopravveste a un uomo tanto più alto di lei. Knut si accovacciò, lo sguardo fiero dei suoi occhi incassati nel viso, dritto innanzi a sé, il naso sottile sfiorò la fronte quadrata e piatta della ragazza che rabbrividì e continuò la vestizione in silenzio.
Knut si era allontanato dal villaggio accompagnato dal suono basso e ripetuto dei tamburi. La valle era immersa nella luce dell’ultimo quarto di luna. Le pendici delle montagne che nascondevano gli dei erano nere di ombre sottili. Il fuoco sacro lanciava i suoi ultimi bagliori al centro del villaggio illuminando di luce rossastra gli abitanti, ciascuno in ginocchio accanto alla propria capanna.
Knut avvolto nella mantella di erbe intrecciate, con in spalla la faretra, si allontanò lentamente nella radura. Aveva con sé frecce, quasi tutte preparate, un arco robusto, un’ascia, un pugnale ed un ramo di tiglio per rifinire gli utensili lungo il cammino.
L’alba fu rosa e il sole lentamente ascese. Knut guardò un’ultima volta la valle prima di allontanarsene. Aveva riempito d’acqua la gerla e di grano i recipienti di betulla che aveva con sé e si preparava alla sua lunga assenza alla ricerca degli dei.
A tratti tornava alla sua mente la visione che aveva avuto qualche notte prima. Sdraiato per terra bocconi con gli aghi conficcati sotto la pelle aveva visto prima il grande bre, il cervo rosso dalle grandi corna che si arrampicava sulla collina, poi aveva sentito le proprie membra irrigidirsi, divenire, fredde e dalla punta delle dita aveva cominciato a salire una nebbia bianca. Gli occhi serrati e chiusi, immoti, tutto precipitava in un baratro di bianca tenebra. A quel punto Knut senza occhi, Knut il sasso, aveva saputo che c’erano mille soli e mille ere, un orrore di abisso e di oblio.
Il giorno breve si stava già consumando, era stanco, si era inoltrato nella foresta di alte conifere e lo aspettava ancora un lungo cammino prima della montagna alta, dove avrebbe incontrato Etzaluk, lo sciamano dei sogni, che gli avrebbe rivelato il significato di quella strana apparizione. Si addormentò.
Si svegliò nel pieno dell’alba. Gli alberi fitti avevano protetto a lungo l’oscurità. Knut si mise rapidamente in cammino. Gli abeti lo affiancavano e lo fronteggiavano ad ogni passo e la foresta era un continuo frinire di uccelli, volare di foglie, gorgogliare di acque. Il freddo attanagliava lo sciamano nonostante le vesti calde e i tatuaggi di protezione. All’improvviso sentì un rumore. Istintivamente, afferrò una freccia nella faretra alle proprie spalle, la sfilò e la strinse fra i denti. Afferrò poi rapidamente il grande arco e ripresa la freccia si preparò al tiro. Il grande cervo gli fu davanti in un lampo, gli zoccoli sollevati e la testa regale all’indietro. Knut lo colpì esattamente al centro del petto.
Il cerimoniale per scuoiare il cervo era terminato. Si trascinava dietro il corpo pesante e ingombrante in una scia di sangue sempre più sottile. Arrivò alla pendice della montagna al tramonto e cominciò ad arrampicarsi a fatica, con la bestia sulle spalle. La visione gli tornò d’improvviso alla mente, quando sentì una fitta fortissima sotto la spalla sinistra. Si mise a riparo in una fenditura della roccia. Lasciò cadere il cervo e quando si toccò la schiena, aveva una freccia conficcata sotto una scapola. Il dolore era acutissimo, si sentiva sempre più debole e il braccio perdeva di sensibilità. Sentiva gli inseguitori sempre più vicini e si mise a strisciare sulla roccia in cerca di un rifugio.
La neve cominciò a scendere prima lenta poi sempre più furiosamente. Knut scivolò dalla roccia e finì nel lago sottostante. Sentiva il sangue fluire via mentre l’acqua fredda del lago cullava il suo dolore impotente. Knut lo sciamano stava morendo.

“Helmut, ne ho abbastanza di questo sentiero, facciamo una deviazione verso il lago”. Helmut guardò la moglie spazientito. Queste vacanze in montagna lo estenuavano ma per Erika erano una prova di sopravvivenza, Ogni mattina lo costringeva ad alzarsi all’alba, si infilavano una tuta da ginnastica e correvano a balzelloni intorno al vecchio albergo alpino. Lei altissima e magra, i biondi capelli corti perfetti, lo guardava con gli occhi sottili e il naso a punta con una specie di disapprovazione. Lui cercava di correre tenendosi il meno possibile stretto in vita l’elastico della tuta di flanella celeste pallido che lei gli aveva regalato. Era un uomo tondo, dai pensieri tondi. I suoi occhi erano azzurramente spalancati su sua moglie, quasi dipinti sul suo naso tondeggiante da buon borghese di Norimberga.
E quasi sempre lo portava fuori strada. Con Erika, era inevitabilmente una vita fuori strada. La seguì anche questa volta. Costeggiavano il grande ghiacciaio, quando Erika lanciò un urlo: “Là, guarda!”.
La testa e la spalle di un uomo emergevano dalla superficie gelata del ghiacciaio di Similaun.
Dopo 5000 anni Knut lo sciamano, Knut il sasso tornava tra la gente.