Le
tende chiare si muovono appena. Entra odore di fresco come la mattina presto.
La luce che filtra è ingrigita dalle tettoie.
La
bambina è concentrata nel gioco, seduta sul divano, ginocchio contro ginocchio.
I capelli lisci e biondi le piovono disordinatamente intorno al viso. Il mento
appuntito sorge ogni tanto come tra le cortine di un teatro, un triangolo rosa
tra i ciuffi.
I passi della mamma sul parquet somigliano a un mano guantata che bussi.
- Martina, andiamo a fare la doccia. Lei posa il gioco e si lascia scivolare giù dal divano. Cammina lieve anche lei tra i mobili antichi e i tappeti pesanti. La casa è grande, troppo ormai per due persone.
Il pigiamino è un mucchietto informe sul pavimento del bagno. Le mani della sua mamma sono energiche e premurose, un abbraccio e una carezza, vorrebbe fare da sola così fanno metà e metà, la mamma controlla solo che si lavi bene e che abbia sciacquato via tutta la schiuma, tiene la testa bassa e ogni tanto fa un sorriso come se all’improvviso Martina le fosse tornata in mente. E’ persa e spenta come se la stanza di sua figlia le fosse estranea, come se non avesse scelto lei le tende con le grosse balze di georgette, se non avesse costruito con le proprie mani l’impalcatura sulla quale i peluche impeccabili e ordinati si arrampicano. Fa sedere la piccola sul letto e le infila i vestiti come se fosse un manichino in una vetrina. Quasi mai alza lo sguardo a incontrare quello di sua figlia che invece cerca continuamente i suoi occhi.
Un
muro d’argento sembra dividerle, uno specchio opaco e impenetrabile mentre
l’aria che entra si impregna di rumori e di odori e il giorno matura giallo e
pieno.
Oggi
Martina va a conoscere la fidanzata di papà. Patrizia, la mamma, non sa perché,
ma vuole che la figlia sia ancora più bella, quella figlia che è e sarà sempre
parte di tutti e due, il cui nome era stato scelto insieme in un pomeriggio che
fuori pioveva e non c’era altro da fare che pensare a un nome che avesse
dentro qualcosa di primaverile, un suono tintinnante.
E le
pettina i capelli lisci e profumati con un pettine bianco, le ciocche le
pendono ai lati del viso. Le fa le trecce e gliele scioglie, le fa i codini e
le scioglie anche quelli. Suonano il campanello,
-
Una volta tanto è puntuale… La mamma si morde le labbra, non avrebbe voluto
dirlo e, chissà perché, anche questo le fa male.
Infila
alla bimba il soprabito chiaro e le sistema ancora una volta i capelli intorno
al viso, gli occhi, enormi e scuri, proiettano un’ombra, come un lama nei suoi
- Mi
raccomando, tesoro.
La
bambina scende la rampa di scala passo dopo passo reggendosi al corrimano e Matteo, il papà è fuori che l’aspetta,
altissimo e biondo anche lui e i suoi capelli sono sempre disordinati come se
il vento li avesse appena scompigliati e sorride a Martina baciandole le guance
rosee e morbide Le tiene la mano, chino verso di lei, quasi girato, come se
stesse cospargendole di petali il cammino.
Piove
poco, le foglie già disegnano un tenue sentiero autunnale sulla seta scura
dell’asfalto. C’è odore di silenzio e i pochi suoni sono trasparenti e vicini.
I piccoli piedi sono calzati di chiaro e sembrano perle che rotolano lentamente
sotto il soprabito ben abbottonato.
Matteo
vuole tenerla per mano perché ha paura.
Ha paura dell’espressione del suo viso. Gli sembra sempre che lei sappia
qualcosa che lui non ha mai saputo. Sarà perché mai in lei ha trovato un’ombra
di sè. La sua mano è pesante, si deve piegare per sostenerne il peso. Eppure è
così piccola che la sua scarpa entra ancora tutta nella mano del suo papà.
Cercherà il suo perdono per tutta la vita e sa che mai lo otterrà perché si
sente innocente. Vorrebbe essere colpevole per poter essere perdonato. Matteo
si avvicina alla macchina, apre lo sportello e adagia la bambina, piccola e
pesante, sul sedile posteriore. Lei sempre lo fissa, solo ogni tanto si osserva
i bottoncini delle scarpe, quasi allo stesso modo. Lui si siede alla guida e
comincia ad andare. Non sa che dire, accende la radio e mette una cassetta
dello Zecchino D’Oro che ha comprato apposta. A Martina non piacciono le
canzoni per bambini ma non dice niente. Per fare contento il papà sta zitta. Le
viene sonno. Sente che le sue palpebre la tirano verso il basso.
Il
viaggio in macchina è sempre lungo per lei. Finalmente sono arrivati a un
cancello, oltre il cancello c’è un giardino grande pieno di aiuole verde
brillante. Entrano e il papà citofona a uno dei campanelli. Qualcuno apre
senza chiedere chi è.
L’ascensore
scivola in alto e la bimba vede se stessa nel grande specchio illuminato.
Quando le porte si aprono, sul pianerottolo appare una donna. E’ diversa dalla
mamma, è più tonda, pensa Martina. La mamma ha più spigoli. Il papà la prende
in braccio con una specie di gemito. Questa è Martina dice, Martina, questa è
Gloria. Gloria scopre orizzontalmente i denti. E’ vestita di chiaro. Entra,
dice alla bambina, dammi il cappottino. L’appartamento è chiaro e lineare non
ci sono addobbi, né soprammobili. C’è una musica che si diffonde e sembra
provenire dalle lampade gialline attaccate al muro. Sicuramente mi offrirà un
biscotto, pensa la bambina, o caramelle. Fanno sempre così. Speriamo ci sia un
gatto. Vuoi un dolce? Quasi c’ero, pensa la bambina. E di gatti neanche
l’ombra. Hai un gatto? Gloria sgrana gli occhi, no, non ce l’ha un gatto.
Martina non pensa di aver fatto una domanda così strana. Va a sedersi sul
divano chiaro con grossi fiori. Il papà le toglie il soprabito e lei ora
vorrebbe dormire, dato che un gatto non c’è e veramente non saprebbe che fare.
La piccola sta per addormentarsi. Matteo la lascia addormentare. Dovrebbe dire o fare qualcosa ma non sa neanche perché è lì. Gli sembrava solo che fosse giusto mettere insieme le parti importanti della sua vita.
La piccola sta per addormentarsi. Matteo la lascia addormentare. Dovrebbe dire o fare qualcosa ma non sa neanche perché è lì. Gli sembrava solo che fosse giusto mettere insieme le parti importanti della sua vita.
Martina
si è assopita. Lui è un po’ geloso dei suoi sogni ma non le dirà mai nulla di
questo. E’ incantato, la luce della finestra accende i suoi capelli e scivola
sul suo abitino a fiori. E’ un momento perfetto, sono soli nella stanza e lui
si sente forte e potrebbe difenderla da tutto il mondo.
Il
momento lirico, quasi eroico, viene interrotto dalla musica irritante del
telefonino. E’ la mamma. La piccola dorme e lui si sente un po’ in colpa a
dirlo e non sa perché. E’ sollevato quando sua figlia si sveglia all’improvviso
e allunga il braccio verso il papà, condiscendente. Sì mamma, va bene… sì
glielo dico. Ho detto sì… Ciao… Anch’io... Anche tu… Si stiracchia sul divano,
come un gatto. Mamma dice che devi farmi i codini. Lui annuisce. Gloria, hai
qualcosa per fare i codini? Gloria ha un espressione come quello del gatto.
Il
soprabito chiaro le viene nuovamente infilato. Martina aspetta paziente che
anche gli altri siano pronti a uscire. Entrano nell’auto tutti e tre e la
bambina si abbandona con un sospiro sul sedile posteriore, pensa che se
piovesse potrebbe fare disegni sui vetri ma neanche piove.
- Mi
scappa la cacca. dice .
-
Siamo arrivati. Risponde il papà.
-
Posso telefonare a mamma per dirle che mi scappa la cacca? Il papà ridacchia.
Gloria anche. Poi, davanti alla porta del bagno di un ristorante, ridacchiano
tutti.
Martina
sospira. E il papà la porta in bagno. Le spiega come deve fare per non
appoggiarsi e lei lo guarda cupa. Gloria gli ha dato delle salviettine umide e
lui non sa bene che farci. A un certo punto la bambina strilla papàaaaaa e lui
corre con le salviettine. Allunga il braccio verso di lui con un atteggiamento
di sufficienza. Arrivo subito, gli dice. Esce dopo qualche minuto perfetta e
profumata. Il papà le porge il soprabito.
-
Non voglio metterlo, ho caldo. Protesta Martina. E corre fuori dal ristorante,
nella strada grigia e bianca. Cammina in silenzio tra il papà e Gloria fino
alla piazza del paese. Passano davanti a bancarelle e chioschi. C’è qualche
pittore che dipinge il porto, qualcun altro che tenta ritratti. Sei contenta
che siamo venuti alla festa? La bimba annuisce. Le piacciono i colori e gli
odori. Qualche venditore la chiama “signorina” e la invita ad avvicinarsi.
I
pittori si immergono nei paesaggi e dipingono, i passanti osservano i pittori
dipingere, qualche volta anche i pittori contemplano i passanti che ridono, si
abbracciano o giocano con i loro cani. Martina si sente sollevare e appoggiare
su di una sedia. Il papà ha gli occhi che gli brillano. Davanti a lei c’è un
uomo con un cappello e un pennello. Vuoi farti un ritratto Martina? La bambina
annuisce. Poi si appoggia al muro. E’ stanca di camminare, il grande parasole
bianco le fa ombra, il pittore ha la pelle scura ed è molto serio, vorrebbe
chiedergli della sua pelle: perché è così diversa dalla sua pelle bionda,
perché le mani sono così grandi, perché le unghie sono rosa. Se conosce Albert,
l’uomo che fa le pulizie a casa, anche lui scuro, ma con gli occhi più grandi.
Il
pittore però non parla. Ogni tanto i suoi occhi si sollevano dalla tela e si
spalancano, come in un lampo improvviso che fa balenare le orbite degli occhi
tra il bruno della pelle e l’ombra. Il mare e i gabbiani, una carezza e un
urlo. Sente l’odore delle barche che dondolano sulle piccole onde del porto.
Martina non vorrebbe avere i codini ma ce li ha, tutti i bambini che passano le
sembrano più contenti di lei, più allegri.
Matteo
e Gloria ammirano il ritratto che il pittore sta cominciando a spennellare
sulla tela. Poi si mettono a chiacchierare seduti ai bordi di un muretto quasi
di fronte alla piccola. Martina li osserva con la coda dell’occhio per non
girare la testa, come se li spiasse. Guarda me, dice il pittore, e sorride. E’
la prima volta che il pittore sorride. Il suo viso è così scuro che nell’ombra,
sotto la visiera del berretto, è difficile distinguere i lineamenti. La bimba
abbassa gli occhi e si sente arrossire, è l’unico sorriso che le sembra di
vedere nella giornata, davanti a lei gli alberi delle imbarcazioni sono una
selva di legno bianco e lucido.
Il
papà fiero prende il disegno finito e lo mostra alla bambina. Tu sei più bella
però, le dice, in questo ritratto sembri arrabbiata. A Martina non piace il
ritratto, poi ha il terrore che i suoi codini restino lì per sempre, quelle
ridicole protuberanze gialle che la fanno sembrare un orso di pezza. Ho fame,
dice. Vuoi un gelato? Vorrei una pizza.
Si
siedono al tavolino di un bar di fianco al porto. Al tavolo silenzioso arrivano
frasi dai tavoli vicini, risate. E’ seduta, con i piedi che un po’ penzolano e
il papà che le spia ogni movimento. Attenta, attenta. Non mangiare troppo in
fretta. Sbrigati che si fredda. Vuoi bere?
Un
cane nero si affaccia alla finestra del ristorante con i suoi occhi splendenti,
guarda proprio lei, non il suo piatto, né le sue mani. A Martina piacerebbe
giocare con lui. Ma è sporco, e chissà di chi è.
Dopo la pizza e il succo di pera tutti e tre fanno una passeggiata fino alla spiaggia. Martina vede un uomo e una donna che scivolano pedalando sulla sabbia e sembrano leggeri e felici. Forse perché non hanno bambini, pensa. Deve essere così. I bambini sono un impegno, un peso. Se vuoi uscire devi sempre trovarti qualcuno che te li tenga. Forse, papà e mamma si sono divisi per questo, così uno può tenere lei mentre l’altro può uscire e fare quello che vuole. Il papà è curvo come sotto un soffitto troppo basso, come se il cielo lo schiacciasse.
L’uomo
in bici si ferma e anche la donna si ferma, insieme indicano qualcosa aldilà
dell’orizzonte. Martina si solleva sulle punte ma non vede nulla. La sabbia le
gratta le piante dei piedini ed il tallone diventa sempre più pesante. E’
almeno un passo indietro, il papà ogni tanto si volta e rallenta. Martina è
talmente stanca che non vuole neanche più lamentarsi.Al
ritorno nella macchina, la radio è accesa, ci sono le canzoni facili, che alla
radio danno spesso. Papà e Gloria parlano della festa del paese, dei ritratti e
delle barche e ogni tanto si girano “è vero?” le chiedono.
Suonano
alla porta e la mamma apre. E’ bella e profumata, elegante come se stesse per
uscire. Scruta Martina, sospettosa. Ha mangiato? Ha dormito? Che è successo
alle sue scarpe? E quelli ti sembrano codini?
Martina
si leva il soprabito e lo butta su una sedia, poi si siede sul divano a
sfogliare un fumetto. Quando rimangono sole, la mamma le prepara la cena nei
soliti piatti a papaveri e oche. Cenano e mamma fa domande su ristoranti,
bancarelle e oggetti. Sua figlia non le dice del ritratto. Non le dice della
casa di Gloria.
Dopo
il bagno la piccola è a letto, le lenzuola profumano di vaniglia come i
cassetti della mamma. La sente parlare al telefono, deve essere la zia. E’
arrabbiata, la voce le trema. Fa domande di continuo ma non aspetta mai la
risposta. Fortuna che la bambina ancora non capisce, dice.
Martina
serra gli occhi, vuole dormire presto e scivolare via. La notte è una signora
pacioccona che la copre con una coperta azzurra e le sorride. La stanza in
penombra è bella e pulita. A lei piace stare così, anche se qualche volta il
silenzio diventa intenso da tapparsi le orecchie. Le piace sentire i rumori
degli alberi e il ronzio della televisione, la fa sentire meglio.
Mamma
è triste, papà era imbarazzato. Lei sa di aver sbagliato ma non saprebbe dire
cosa. Le sembra che, se qualcosa è andato storto, la colpa sia sua anche se non
sa bene perché. Prima i suoi genitori vivevano insieme ma non erano felici lo
stesso. Martina vuole dormire perché non vuole
pensare ai grandi e alle loro tristezze e all’errore che non riesce a
capire. Vuole dormire e dimenticare tutto, svegliarsi lontano in una casa con
un gatto e un cane nero alla finestra.
Vorrebbe
avere una bacchetta magica e veder sorridere tutti oppure semplicemente
svanire, che forse è lo stesso.
La
mamma pensa che Martina stia già dormendo, immagina che sogni.