domenica 13 gennaio 2013

IMMAGINA CHE SOGNI


Le tende chiare si muovono appena. Entra odore di fresco come la mattina presto. La luce che filtra è ingrigita dalle tettoie.
La bambina è concentrata nel gioco, seduta sul divano, ginocchio contro ginocchio. I capelli lisci e biondi le piovono disordinatamente intorno al viso. Il mento appuntito sorge ogni tanto come tra le cortine di un teatro, un triangolo rosa tra i ciuffi.

I passi della mamma sul parquet somigliano a un mano guantata che bussi.
- Martina, andiamo a fare la doccia. Lei posa il gioco e si lascia scivolare giù dal divano. Cammina lieve anche lei tra i mobili antichi e i tappeti pesanti. La casa è grande, troppo ormai per due persone.
Il pigiamino è un mucchietto informe sul pavimento del bagno. Le mani della sua mamma sono energiche e premurose, un abbraccio e una carezza, vorrebbe fare da sola così fanno metà e metà, la mamma controlla solo che si lavi bene e che abbia sciacquato via tutta la schiuma, tiene la testa bassa e ogni tanto fa un sorriso come se all’improvviso Martina le fosse tornata in mente. E’ persa e spenta come se la stanza di sua figlia le fosse estranea, come se non avesse scelto lei le tende con le grosse balze di georgette, se non avesse costruito con le proprie mani l’impalcatura sulla quale i peluche impeccabili e ordinati si arrampicano. Fa sedere la piccola sul letto e le infila i vestiti come se fosse un manichino in una vetrina. Quasi mai alza lo sguardo a incontrare quello di sua figlia che invece cerca continuamente i suoi occhi.
Un muro d’argento sembra dividerle, uno specchio opaco e impenetrabile mentre l’aria che entra si impregna di rumori e di odori e il giorno matura giallo e pieno.
Oggi Martina va a conoscere la fidanzata di papà. Patrizia, la mamma, non sa perché, ma vuole che la figlia sia ancora più bella, quella figlia che è e sarà sempre parte di tutti e due, il cui nome era stato scelto insieme in un pomeriggio che fuori pioveva e non c’era altro da fare che pensare a un nome che avesse dentro qualcosa di primaverile, un suono tintinnante.
E le pettina i capelli lisci e profumati con un pettine bianco, le ciocche le pendono ai lati del viso. Le fa le trecce e gliele scioglie, le fa i codini e le scioglie anche quelli. Suonano il campanello,
- Una volta tanto è puntuale… La mamma si morde le labbra, non avrebbe voluto dirlo e, chissà perché, anche questo le fa male.
Infila alla bimba il soprabito chiaro e le sistema ancora una volta i capelli intorno al viso, gli occhi, enormi e scuri, proiettano un’ombra, come un lama nei suoi
- Mi raccomando, tesoro.
La bambina scende la rampa di scala passo dopo passo reggendosi al corrimano  e Matteo, il papà è fuori che l’aspetta, altissimo e biondo anche lui e i suoi capelli sono sempre disordinati come se il vento li avesse appena scompigliati e sorride a Martina baciandole le guance rosee e morbide Le tiene la mano, chino verso di lei, quasi girato, come se stesse cospargendole di petali il cammino.
Piove poco, le foglie già disegnano un tenue sentiero autunnale sulla seta scura dell’asfalto. C’è odore di silenzio e i pochi suoni sono trasparenti e vicini. I piccoli piedi sono calzati di chiaro e sembrano perle che rotolano lentamente sotto il soprabito ben abbottonato.
Matteo vuole tenerla per mano  perché ha paura. Ha paura dell’espressione del suo viso. Gli sembra sempre che lei sappia qualcosa che lui non ha mai saputo. Sarà perché mai in lei ha trovato un’ombra di sè. La sua mano è pesante, si deve piegare per sostenerne il peso. Eppure è così piccola che la sua scarpa entra ancora tutta nella mano del suo papà. Cercherà il suo perdono per tutta la vita e sa che mai lo otterrà perché si sente innocente. Vorrebbe essere colpevole per poter essere perdonato. Matteo si avvicina alla macchina, apre lo sportello e adagia la bambina, piccola e pesante, sul sedile posteriore. Lei sempre lo fissa, solo ogni tanto si osserva i bottoncini delle scarpe, quasi allo stesso modo. Lui si siede alla guida e comincia ad andare. Non sa che dire, accende la radio e mette una cassetta dello Zecchino D’Oro che ha comprato apposta. A Martina non piacciono le canzoni per bambini ma non dice niente. Per fare contento il papà sta zitta. Le viene sonno. Sente che le sue palpebre la tirano verso il basso.
Il viaggio in macchina è sempre lungo per lei. Finalmente sono arrivati a un cancello, oltre il cancello c’è un giardino grande pieno di aiuole verde brillante. Entrano e il papà citofona a uno dei campanelli. Qualcuno apre senza chiedere chi è.
L’ascensore scivola in alto e la bimba vede se stessa nel grande specchio illuminato. Quando le porte si aprono, sul pianerottolo appare una donna. E’ diversa dalla mamma, è più tonda, pensa Martina. La mamma ha più spigoli. Il papà la prende in braccio con una specie di gemito. Questa è Martina dice, Martina, questa è Gloria. Gloria scopre orizzontalmente i denti. E’ vestita di chiaro. Entra, dice alla bambina, dammi il cappottino. L’appartamento è chiaro e lineare non ci sono addobbi, né soprammobili. C’è una musica che si diffonde e sembra provenire dalle lampade gialline attaccate al muro. Sicuramente mi offrirà un biscotto, pensa la bambina, o caramelle. Fanno sempre così. Speriamo ci sia un gatto. Vuoi un dolce? Quasi c’ero, pensa la bambina. E di gatti neanche l’ombra. Hai un gatto? Gloria sgrana gli occhi, no, non ce l’ha un gatto. Martina non pensa di aver fatto una domanda così strana. Va a sedersi sul divano chiaro con grossi fiori. Il papà le toglie il soprabito e lei ora vorrebbe dormire, dato che un gatto non c’è e veramente non saprebbe che fare.
La piccola sta per addormentarsi. Matteo la lascia addormentare. Dovrebbe dire o fare qualcosa ma non sa neanche perché è lì. Gli sembrava solo che fosse giusto mettere insieme le parti importanti della sua vita.
Martina si è assopita. Lui è un po’ geloso dei suoi sogni ma non le dirà mai nulla di questo. E’ incantato, la luce della finestra accende i suoi capelli e scivola sul suo abitino a fiori. E’ un momento perfetto, sono soli nella stanza e lui si sente forte e potrebbe difenderla da tutto il mondo.
Il momento lirico, quasi eroico, viene interrotto dalla musica irritante del telefonino. E’ la mamma. La piccola dorme e lui si sente un po’ in colpa a dirlo e non sa perché. E’ sollevato quando sua figlia si sveglia all’improvviso e allunga il braccio verso il papà, condiscendente. Sì mamma, va bene… sì glielo dico. Ho detto sì… Ciao… Anch’io... Anche tu… Si stiracchia sul divano, come un gatto. Mamma dice che devi farmi i codini. Lui annuisce. Gloria, hai qualcosa per fare i codini? Gloria ha un espressione come quello del gatto.
Il soprabito chiaro le viene nuovamente infilato. Martina aspetta paziente che anche gli altri siano pronti a uscire. Entrano nell’auto tutti e tre e la bambina si abbandona con un sospiro sul sedile posteriore, pensa che se piovesse potrebbe fare disegni sui vetri ma neanche piove.
- Mi scappa la cacca. dice .
- Siamo arrivati. Risponde il papà.
- Posso telefonare a mamma per dirle che mi scappa la cacca? Il papà ridacchia. Gloria anche. Poi, davanti alla porta del bagno di un ristorante, ridacchiano tutti.
Martina sospira. E il papà la porta in bagno. Le spiega come deve fare per non appoggiarsi e lei lo guarda cupa. Gloria gli ha dato delle salviettine umide e lui non sa bene che farci. A un certo punto la bambina strilla papàaaaaa e lui corre con le salviettine. Allunga il braccio verso di lui con un atteggiamento di sufficienza. Arrivo subito, gli dice. Esce dopo qualche minuto perfetta e profumata. Il papà le porge il soprabito.
- Non voglio metterlo, ho caldo. Protesta Martina. E corre fuori dal ristorante, nella strada grigia e bianca. Cammina in silenzio tra il papà e Gloria fino alla piazza del paese. Passano davanti a bancarelle e chioschi. C’è qualche pittore che dipinge il porto, qualcun altro che tenta ritratti. Sei contenta che siamo venuti alla festa? La bimba annuisce. Le piacciono i colori e gli odori. Qualche venditore la chiama “signorina” e la invita ad avvicinarsi.
I pittori si immergono nei paesaggi e dipingono, i passanti osservano i pittori dipingere, qualche volta anche i pittori contemplano i passanti che ridono, si abbracciano o giocano con i loro cani. Martina si sente sollevare e appoggiare su di una sedia. Il papà ha gli occhi che gli brillano. Davanti a lei c’è un uomo con un cappello e un pennello. Vuoi farti un ritratto Martina? La bambina annuisce. Poi si appoggia al muro. E’ stanca di camminare, il grande parasole bianco le fa ombra, il pittore ha la pelle scura ed è molto serio, vorrebbe chiedergli della sua pelle: perché è così diversa dalla sua pelle bionda, perché le mani sono così grandi, perché le unghie sono rosa. Se conosce Albert, l’uomo che fa le pulizie a casa, anche lui scuro, ma con gli occhi più grandi.
Il pittore però non parla. Ogni tanto i suoi occhi si sollevano dalla tela e si spalancano, come in un lampo improvviso che fa balenare le orbite degli occhi tra il bruno della pelle e l’ombra. Il mare e i gabbiani, una carezza e un urlo. Sente l’odore delle barche che dondolano sulle piccole onde del porto. Martina non vorrebbe avere i codini ma ce li ha, tutti i bambini che passano le sembrano più contenti di lei, più allegri.
Matteo e Gloria ammirano il ritratto che il pittore sta cominciando a spennellare sulla tela. Poi si mettono a chiacchierare seduti ai bordi di un muretto quasi di fronte alla piccola. Martina li osserva con la coda dell’occhio per non girare la testa, come se li spiasse. Guarda me, dice il pittore, e sorride. E’ la prima volta che il pittore sorride. Il suo viso è così scuro che nell’ombra, sotto la visiera del berretto, è difficile distinguere i lineamenti. La bimba abbassa gli occhi e si sente arrossire, è l’unico sorriso che le sembra di vedere nella giornata, davanti a lei gli alberi delle imbarcazioni sono una selva di legno bianco e lucido.
Il papà fiero prende il disegno finito e lo mostra alla bambina. Tu sei più bella però, le dice, in questo ritratto sembri arrabbiata. A Martina non piace il ritratto, poi ha il terrore che i suoi codini restino lì per sempre, quelle ridicole protuberanze gialle che la fanno sembrare un orso di pezza. Ho fame, dice. Vuoi un gelato? Vorrei una pizza.
Si siedono al tavolino di un bar di fianco al porto. Al tavolo silenzioso arrivano frasi dai tavoli vicini, risate. E’ seduta, con i piedi che un po’ penzolano e il papà che le spia ogni movimento. Attenta, attenta. Non mangiare troppo in fretta. Sbrigati che si fredda. Vuoi bere?
Un cane nero si affaccia alla finestra del ristorante con i suoi occhi splendenti, guarda proprio lei, non il suo piatto, né le sue mani. A Martina piacerebbe giocare con lui. Ma è sporco, e chissà di chi è.

Dopo la pizza e il succo di pera tutti e tre fanno una passeggiata fino alla spiaggia. Martina vede un uomo e una donna che scivolano pedalando sulla sabbia e sembrano leggeri e felici. Forse perché non hanno bambini, pensa. Deve essere così. I bambini sono un impegno, un peso. Se vuoi uscire devi sempre trovarti qualcuno che te li tenga. Forse, papà e mamma si sono divisi per questo, così uno può tenere lei mentre l’altro può uscire e fare quello che vuole. Il papà è curvo come sotto un soffitto troppo basso, come se il cielo lo schiacciasse.
L’uomo in bici si ferma e anche la donna si ferma, insieme indicano qualcosa aldilà dell’orizzonte. Martina si solleva sulle punte ma non vede nulla. La sabbia le gratta le piante dei piedini ed il tallone diventa sempre più pesante. E’ almeno un passo indietro, il papà ogni tanto si volta e rallenta. Martina è talmente stanca che non vuole neanche più lamentarsi.Al ritorno nella macchina, la radio è accesa, ci sono le canzoni facili, che alla radio danno spesso. Papà e Gloria parlano della festa del paese, dei ritratti e delle barche e ogni tanto si girano “è vero?” le chiedono. 
Suonano alla porta e la mamma apre. E’ bella e profumata, elegante come se stesse per uscire. Scruta Martina, sospettosa. Ha mangiato? Ha dormito? Che è successo alle sue scarpe? E quelli ti sembrano codini?
Martina si leva il soprabito e lo butta su una sedia, poi si siede sul divano a sfogliare un fumetto. Quando rimangono sole, la mamma le prepara la cena nei soliti piatti a papaveri e oche. Cenano e mamma fa domande su ristoranti, bancarelle e oggetti. Sua figlia non le dice del ritratto. Non le dice della casa di Gloria.
Dopo il bagno la piccola è a letto, le lenzuola profumano di vaniglia come i cassetti della mamma. La sente parlare al telefono, deve essere la zia. E’ arrabbiata, la voce le trema. Fa domande di continuo ma non aspetta mai la risposta. Fortuna che la bambina ancora non capisce, dice.
Martina serra gli occhi, vuole dormire presto e scivolare via. La notte è una signora pacioccona che la copre con una coperta azzurra e le sorride. La stanza in penombra è bella e pulita. A lei piace stare così, anche se qualche volta il silenzio diventa intenso da tapparsi le orecchie. Le piace sentire i rumori degli alberi e il ronzio della televisione, la fa sentire meglio.
Mamma è triste, papà era imbarazzato. Lei sa di aver sbagliato ma non saprebbe dire cosa. Le sembra che, se qualcosa è andato storto, la colpa sia sua anche se non sa bene perché. Prima i suoi genitori vivevano insieme ma non erano felici lo stesso. Martina vuole dormire perché non vuole  pensare ai grandi e alle loro tristezze e all’errore che non riesce a capire. Vuole dormire e dimenticare tutto, svegliarsi lontano in una casa con un gatto e un cane nero alla finestra.
Vorrebbe avere una bacchetta magica e veder sorridere tutti oppure semplicemente svanire, che forse è lo stesso.
La mamma pensa che Martina stia già dormendo, immagina che sogni.