giovedì 19 gennaio 2012

"Non voglio che ti allontani dolore..." P. Salinas

Oggi mia sorella mi ricordava l'agonia di nostra madre. La sua morte lenta, lo strazio degli ultimi mesi in cui il suo corpo si dissolveva, polvere di cipria, come quella rosa chiaro che avevo scoperto, bambina, sul grande comò di mogano della stanza da letto dei miei genitori. Un comò lucido, con le maniglie di ottone, credo,  profumato spesso dello stesso odore della cipria, che mamma era solita spargere con un piumino soffice.
Ho rivisto il volto pallidissimo di mia madre sul cuscino dell'ospedale, la mia immobilità di ghiaccio, accanto al suo letto, tesa come un sasso, impossibilitata, con le lacrime che mi sfuggivano da tutte le parti, come se a piangere non fossero stati solo gli occhi. Lacrime fitte che scendevano impudenti a confessare un dolore immenso che neanche io volevo riconoscere.
E mi rivedevo nella sala rianimazione, coi macchinari pulsanti, la luce verde, l'odore di disinfettante, l'indifferenza pesante di tutto il mondo, che non sa chi sei, chi è la signora nel letto di fronte a te, la donna che si sta consumando. Vede una persona anziana, che si può infilare in un letto in malo modo, un mucchio d'ossa ormai troppo leggere. E non sa quanta vita ancora c'è in te per lei, anche se non ce n'è più in lei per te.
E ho sentito, dentro di me, incredibilmente, che mi manca quel dolore, perché quel dolore era la pena di quando lei era ancora viva e io mi straziavo per la paura che morisse. E ora resta solo un dolore quieto, un dolore che non morde più, un dolore che è passato. E' la nostalgia della speranza disperata che era in fondo al dolore, è la nostalgia dell'amore che quel dolore proteggeva, un dolore che non ha più senso, nonostante l'amore sia rimasto.
Come un bambino che non piange più nel buio, perché sa che nessuno arriverà a consolarlo.

martedì 17 gennaio 2012

Un uomo, al buio.

Oggi mi sono chiesta più di una volta che si deve provare a essere Francesco Schettino, il comandante della nave da crociera affondata al largo (forse largo è una parola grossa, in effetti) dell'Isola del Giglio. Mi sono domandata che cosa si deve provare a essere circondati dal pressoché unanime sdegno e disprezzo, dall'essere bollati, più o meno direttamente, con aggettivi che vanno dal vile, al cialtrone, all'incompetente. Quelli più benevoli gli hanno dato del raccomandato.
In particolare sono stata colpita dalla registrazione, la voce del comandante della Guardia Costiera, ferma, virile, un velo di cadenza partenopea, intrepida. E la voce del comandante appena un soffio, grave d'accento campano, con il sottotitolo "tengo famiglia", sembrava un guitto, gettato lì per caso, le parole smozzicate: "ma è buio".
Mentre il comandante lo incalzava, chiedendogli di risalire a bordo, si capiva che Schettino pensava: "parli bene tu che stai lì all'asciutto, che non stai in questo casino, ma io ho paura".
E lui che pensava che fare il capitano fosse portare una bella divisa, fare feste a bordo e celebrare matrimoni, si era ritrovato ad affrontare le conseguenze di un fuori rotta spericolato, che aveva causato la morte di persone. "Quante?" chiede timoroso a De Falco, il comandante della Guardia Costiera, che lo incalza, e che gli sputa in faccia con rabbia "Me lo deve dire lei quante!" come risposta.
E io me lo immaginavo, all'inizio di questa storia, il capitano di una nave così grossa, come un eroe della Marina militare, oppure come il capitano benevolo di Love Boat, e invece ho ritrovato nelle foto questa faccia paciosa da pizzaiolo, un po' come Calderoli che ha la faccia da salumiere, come Bossi che ha la faccia da tassista, La Russa che ha la faccia da... Lasciamo perdere. E uno, un po' rivaluta la fisiognomica.
E confrontando quest'uomo con tanti altri uomini e donne che ho conosciuto e conosco, privi di senso della responsabilità e di dignità, mi domando se queste persone si vergognino  un po' o pensino, "ma chi se ne frega, alla fine sono vivo".
Come se tutto quello che conta fosse espirare e inspirare, nascere, crescere, (forse) riprodursi e morire.
E se fosse proprio così?

martedì 10 gennaio 2012

"La storia non parla di un momento ma DEL momento" (W. D. Wetherell)


Della mia infanzia ricordo un piccolo balcone sulla strada principale del paese e mio padre che mi raccontava una storia. Era una storia semplice e sempre la stessa, una specie di rito: lui seduto di fronte a me, i denti bianchi, un lampo breve nei sorrisi, in quelle sere fresche e illuminate da un lampione più pallido della luna.
Poi c’era mia madre, una donna bellissima dagli occhi di cristallo, che raccontava di strade polverose, di bambini con calze di cotone adagiate su scarpe mai pulite, pieni di lividi e graffi, che cercavano di darsi un contegno nella loro lingua dialettale. Oppure raccontava storie di persone antiche dagli strani soprannomi, buffe, personaggi di un altro posto e di un altro tempo, incastrati in un angolo di Storia, senza volerlo, senza capirlo. Mia madre li ricordava, li tratteneva e loro rivivevano un istante prima di essere inghiottiti nuovamente nell’oscurità.
Mia madre quando raccontava aveva il dono di modulare la voce e di cambiare l’espressione del viso. A noi sembrava di essere stati lì con lei, le sue storie diventavano le nostre, eravamo lì a vivere decine di altre vite.
Ci fu presto l’incontro coi libri; leggevo avidamente, mi si aprivano nuovi mondi in cui gli animali parlavano, i bambini si cospargevano di polverina e volavano grazie a un pensiero felice, sedevo nel salotto con quattro sorelle che attendevano, assieme alla madre, il ritorno di un padre reduce dalla guerra civile, scoprivo antichi dei e viaggiavo su astronavi perdute nello spazio.
Mentre andavo a scuola, nella mia testa, inventavo storie, scarabocchiavo racconti su qualunque foglio bianco trovassi.
Non so se scrivendo e leggendo cercassi la vita o la fuggissi e forse, ancora oggi, non lo so. Amo scrivere perché è una parte di me ma, soprattutto, perché voglio raccontare storie.
Voglio trattenere, solo un attimo, ciò che scorre tra le dita, perché qualcun altro lo possa afferrare.

lunedì 9 gennaio 2012

"La Nostalgia non è più quella di una volta" (S. Signoret)


Sugli specchietti laterali di molte automobili c'è scritto "gli oggetti nello specchietto sono più vicini di quanto non appaiano". Lo stesso avviene per i ricordi del passato, le cose perdute ci appaiono più belle anche perché non ci sono più, sono divenute irripetibili.

Per questo diffido della nostalgia e mi piace pensare che l'oggi è lo ieri che domani rimpiangerò.
E' un po' complicato da esprimere e certo non evita i rimpianti, però forse può essere utile ricordare che non abbiamo sempre amato il Natale, che le feste in famiglia ci snervavano e che non vedevamo l'ora che tutto finisse. Che nostro padre qualche volta ci metteva in imbarazzo e che nostra madre non era una donna perfetta.
Il problema è che non riusciamo a vivere qui e ora, ma in un istante confuso tra passato e futuro che di rado riesce a essere presente.

domenica 8 gennaio 2012

Donnette e Donnacce


Molte donne sono donnette perché non hanno abbastanza coraggio per essere donnacce. Nondimeno, per istinto, sanno che, per un uomo una donnetta ha dei privilegi rispetto a una donnaccia. Può usare la propria debolezza come forza, perché nessuna forza può battere una certa debolezza.
Guarda l'uomo con occhi lucidi, lo tiene prigioniero dei sensi di colpa, della compassione, ma anche della vigliaccheria, perché attribuire a un'altra persona le responsabilità delle proprie scelte è una sirena cui pochi Ulisse sanno sfuggire.
E così eccoli avvinti a una donna senza dignità, che userà qualunque mezzo per prolungare l'agonia di un rapporto, non ammettere un fallimento, spesso solo per non perdere uno status, non diventare "una separata", o peggio "una divorziata". Le donnette immolano spesso i figli sull'altare del proprio rancore, e la lotta diventa senza quartiere. Ogni mezzo diventa lecito, minacciare il suicidio, fingere la pazzia, lasciare il lavoro.
Una donnaccia si lascia più facilmente di una donnetta. Una che ha il coraggio di dire le cose come stanno, di mostrarsi cattiva, di chiedere ciò che vuole.
Ma se sei una donna, una donna con dignità, con valore, che ama con coraggio, che non sa ricattare, che parla apertamente, che chiede un confronto, che ti chiede di riflettere, di scegliere, di vivere la tua vita, se sei una donna... coraggio, perché perderai quasi tutte le battaglie, ma alla fine l'unica guerra che valga la pena di combattere, quella per essere una persona migliore, la vincerai tu.

sabato 7 gennaio 2012

Tu mi fai girar...


Non sopporto le persone che si accorgono di quanto tenessero a qualcosa o, peggio ancora, a qualcuno, solo quando lo hanno perduto. Mi ricorda l'atteggiamento dei bambini bizzosi e viziati che hanno troppi giocattoli e se ne stancano, con l'andare del tempo, ma se poi arriva un altro bimbo che chiede un giocattolo trascurato, gettato in un angolo, ignorato, o non lo trovano più, iniziano a piangere disperati.
E si pentono, singhiozzano, si avviliscono, sembrano sinceri nella loro disperazione. Tanto che qualche giocattolo si impietosisce, riappare, ritorna.
E per un po' funziona. Per un po'. Ma il bambino viziato è un bambino viziato, non cambia.
A me non è mai successo di accorgermi del valore di qualcosa perché la stavo perdendo. Mi è capitato più spesso il contrario, di accorgermi di quanto sopravvalutassi il mio bisogno e il mio desiderio di qualcosa, una relazione, una situazione, quando l'ho perduta.
E mi sono trovata persino a pensare, ma come è possibile che non mi accorgessi di quanto fosse inutile, di quanto stessi male? E man mano che il sangue riprendeva a circolare nei piedi, liberati dalle scarpe strette, sentivo inizialmente dolore, ma poi un sollievo infinito.
Perché dalle carceri i prigionieri possono uscire, fuggire. I carcerieri devono sempre tornare.

venerdì 6 gennaio 2012

"Lied Vom Kindsein" — Peter Handke.


Quando il bambino era bambino, se ne andava a braccia appese. Voleva che il ruscello fosse un fiume, il fiume un torrente, e questa pozza il mare.

Quando il bambino era bambino, non sapeva d'essere un bambino. Per lui tutto aveva un'anima, e tutte le anime erano tutt'uno.

Quando il bambino era bambino, su niente aveva un'opinione.

Non aveva abitudini. Sedeva spesso a gambe incrociate, e di colpo sgusciava via.

Aveva un vortice tra i capelli, e non faceva facce da fotografo.

Quando il bambino era bambino, era l'epoca di queste domande:

Perché io sono io, e perché non sei tu? Perché sono qui, e perché non sono lí? Quando é cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?

La vita sotto il sole, é forse solo un sogno? Non é solo l'apparenza di un mondo davanti a un mondo, quello che vedo, sento e odoro?

C'é veramente il male? E' gente veramente cattiva?

Come puó essere che io, che sono io, non c'ero prima di diventare? E che un giorno io, che sono io, non saró piú quello che sono?

Quando il bambino era bambino, per nutrirsi gli bastavano pane e mela, ed é ancora cosí.

Quando il bambino era bambino, le bacche gli cadevano in mano, come solo le bacche sanno cadere. Ed é ancora cosí. Le noci fresche gli raspavano la lingua, ed é ancora cosí.

A ogni monte, sentiva nostalgia di una montagna ancora piú alta, e in ogni cittá, sentiva nostalgia di una cittá ancora piú grande. E questo, é ancora cosí. Sulla cima di un albero, prendeva le ciliegie tutto euforico, com'é ancora oggi.

Aveva timore davanti ad ogni estraneo, e continua ad averne. Aspettava la prima neve, e continua ad aspettarla.

Quando il bambino era bambino, lanciava contro l'albero un bastone, come fosse una lancia.

E ancora continua a vibrare.