mercoledì 26 dicembre 2012

Oltre il fiume


Jonas spalancava gli occhi sulla notte di velluto.
Da fuori arrivavano gli odori del cibo cotto nelle capanne. Il lamento di nonna Ellie si levava dal letto a intervalli regolari. A un certo punto si era interrotto. Jonas si era avvicinato al letto preoccupato.
- Nonna, come stai?
- Sto bene Jonas, sto bene…
Jonas guardò sua nonna dubbioso, la luce della lampada e il fuoco del camino la illuminavano appena, la pelle scura e lucida era tesa, nonostante la nonna fosse vecchia. Aveva quasi 50 anni.
- Passami la spazzola Jonas, mi voglio pettinare.
- Nonna…
- La spazzola, Jonas.
Jonas prese la spazzola dal tavolino accanto al letto e la porse a Ellie, che sorrise.
- Grazie. E ora aiutami a tirarmi su.
Jonas si chinò verso di lei, odorava di febbre e di terra. La prese a fatica da sotto le ascelle e la sollevò.
Guardò sua nonna che si pettinava con cura. L’ultima volta che l’aveva vista fare così era stato per la festa di Eliah.
- Sistemami la camicia, e passami il libro.
Jonas guardò la vecchia Bibbia sgualcita. La padroncina Emma l’aveva regalata a Ellie una volta, tornando dalla messa, e per Ellie era diventata un dono prezioso da cui non separarsi mai. Sembrava che quel regalo fosse una ricompensa sufficiente per le frustate ricevute, le violenze di suo padre, che aveva stuprato e venduto una sua figlia quando aveva appena 13 anni. La mamma di Jonas, almeno, non l’aveva venduta.
- Tieni, nonna.
- Apri la finestra Jonas, stanno venendo a prendermi.
- No, nonna, stai tranquilla. Ci sono io.
Ellie sorrise.
- No, tu stai tranquillo. Mi vengono a prendere. Era tanto che aspettavo. Aiutami a mettermi giù.
Jonas si chinò ancora. La sistemò nel letto, accomodandole le coperte, attento a non spettinarla e a non sgualcirle la camicia.
- Cantano… Apri la finestra.
- E’ aperta, nonna.
Ellie sorrise e chiuse gli occhi.
Jonas attese qualche minuto. Poi si avvicinò, non c’era più il respiro.
La guardò ancora una volta, le braccia scure piegate, le mani chiuse intorno alla Bibbia, il volto finalmente sereno.
Ma lui l’avrebbe ricordata sempre china sul cotone, mentre cantava dolcemente con la sua voce profonda e vibrante; che lo chiamava a sé agitando un giocattolo di legno. Ma ormai era tardi.
Un fischio lungo e acuto proveniva dal fiume. Thomas e Noah lo stavano aspettando accanto alla zattera. Non avrebbe salutato nessun altro prima di andare a Nord.
Si avvicinò nuovamente a sua nonna e le sfilò la bibbia dalle mani. La soppesò un attimo tra le dita prima di gettarla nel fuoco.
Poi saltò dalla finestra aperta.

domenica 9 dicembre 2012

COME L’EDERA


Il giardino della casa di mia madre era immerso nel silenzio della sera. Mi stupisco sempre a guardarlo, è un giardino che non somiglia alla casa, non somiglia neanche a mia madre. Ha un sapore antico, di rose rampicanti, iris profumati sparsi alla rinfusa. Le aiuole sono delimitate da sassi grigi che sembrano essere stati trascinati dalla marea, come per caso. Ma conosco mia madre, e immaginavo la cura che era stata necessaria per produrre quell’impressione di naturalezza.
Al centro del giardino c’è il pezzo più stupefacente di tutto l’insieme, una statua antica, credo dell’ottocento, che raffigura due amanti, abbracciati, avvinti. L’edera si arrampica su tutto il piedistallo, ma mia madre non permette che vada oltre e si occupa della potatura con precisione maniacale.
- Ah, sei qui?
Era arrivata alle mie spalle all’improvviso. Come quando ero bambino e veniva a vedere se stavo facendo i compiti o leggendo Topolino. Proprio come allora.
- E’ fresco, ed è tardi. Faresti meglio a rientrare, domani ti aspetta una giornata intensa.
- Hai sempre avuto il gusto dell’eufemismo mamma.
Sorrise, ravviandosi i capelli biondi con la bella mano affusolata. Le sue mani erano sempre state affascinanti. Qualunque cosa facessero.
- Suvvia, che sarà mai. Non sei il primo uomo che si sposa.
Sentii ironia nella sua voce.
- Sei contraria, vero?
- La scelta è tua, tu devi essere convinto. Io non c’entro nulla.
Mi voltai di nuovo verso il giardino per cercare le parole da dire. Come spiegarle? Come raccontarle tutto il disagio e la tristezza che mi ha dato la separazione tra lei e nostro padre? Come dirle delle notti passate da me e Barbara a cercare di capire?
- Io credo nel matrimonio.
- Solo questo conta.
- Tu non ci credi, vero mamma? Ti sembro ridicolo?
- Perché dici questo?
Per un attimo mi era sembrata sinceramente turbata.
- Ti voglio bene e rispetto le tue scelte. Anche io mi sono sposata.
- Già, ma poi hai detto che è stato un errore. Un errore da non rifare.
- Mi riferivo al contratto, alla cerimonia. Non al rapporto con tuo padre, tantomeno alla nascita tua e di Barbara.
- E allora, se il rapporto con papà non è stato un errore, perché è finito?
- Era giusto per allora. Poi non lo è stato più.
- Ah be’, troppo comodo!
- Che vuoi dire?
- Mi stai bene ora, ma tra qualche tempo non so, vediamo…
Sorrise. Uno di quei sorrisi larghi ed entusiasmanti che facevano cadere uomini e donne ai suoi piedi. Un pericolo pubblico, mia madre. Anche a quasi sessant’anni. Sentii una fitta di gelosia.
- Mi sa che dobbiamo sederci.
Sedette sulla panca di legno riverniciata da poco. E’ una vecchia panca, la ricordo sin da bambino.  Avvertii la stessa sensazione di legno vecchio e umido, lo stesso odore di resina dal cespuglio dietro le nostre spalle.
- Tranquillo, non voglio raccontarti la storia della mia vita.
-  La ascolterei volentieri mamma.
- Frottole. Queste cose si fanno “volentieri” solo nella fase dell’innamoramento e tu non sei più nella fase dell’”amore per la mamma”.
Frottole. Chiunque altro avrebbe detto “balle” o “cazzate”. Lei aveva detto “frottole” col suo lieve accento e la voce calda e profonda ed era sembrata la cosa più naturale del mondo, non un termine desueto da libro di testo.
- Quando avevo sedici anni ero una ragazzina come tante altre, solo più curiosa e più vivace. I miei erano terrorizzati. Temevano che sarei scappata con qualche teppistello o qualche hippy.
Restai in silenzio. Sapevo che così non era stato. Ma che cosa era stato, quello non lo sapevo.
- Mi mandarono in vacanza da una nostra zia che abitava in città. Lì conobbi Sergio, era un giovane storico dell’arte. Ci innamorammo. Chiesi e ottenni dai miei genitori di poter finire gli studi in città. Sotto la guida di Sergio mi laureai presto e bene e iniziai la mia carriera di curatrice di mostre sotto la sua ala protettrice.
- Poi che successe? Perché vi siete lasciati?
- Conobbi tuo padre, era un uomo molto affascinante. Rispetto a Sergio era più… sapeva vivere, diciamo. 
- Non capisco.
- Io ero comunque ancora molto “paesana”. Un uomo che conosceva un certo tipo di mondo, che sapeva muoversi… Mi dava sicurezza. Anche Sergio me ne dava, in un certo senso. Solo che era una sicurezza diversa. Sergio mi dava sicurezza per crescere, tuo padre per vivere, per mettere su una famiglia.
- L’uomo da sposare.
- In un certo senso, che male c’è? Lo amavo, era la persona giusta.
- E poi?
- Ci siamo sposati, siete nati voi, siamo stati felici. Nel frattempo, vostro padre era diventato una personalità di spicco nel suo settore e io avevo raggiunto una certa fama nel mio. Non eravamo più la ragazzina di paese e il brillante professionista, eravamo un uomo maturo e affascinante e una donna…
Si interruppe come se continuare le costasse uno sforzo.
- Una donna che voleva attenzione.
- E papà non te ne dava?
- Sì, tuo padre era pieno di attenzioni, ma non per me. Non più.
- Che vuoi dire?
- Sei grande ormai. La storia con Arianna era iniziata prima della nostra separazione.
- Non è vero!
- Non ha importanza. Con tuo padre ci ridiamo su, gli dico sempre: voi uomini volete una donna per guadagnare i soldi e una ragazza per spenderli.
- Sì, e tu allora? Sei una santa?
- No, ti ho detto che volevo attenzioni, e ne ho avute. Dopo tuo padre c’è stato Pietro, un uomo solido, forte, affettuoso, che mi ha dato serenità e calore. Alla fine del matrimonio con tuo padre mi sentivo svuotata, a pezzi.
- Ma anche con Pietro è finita.
- Lui voleva ricostruire una famiglia. Io l’avevo già avuta. Non era giusto che io lo trattenessi.
- E ora?
- Che ti importa? Vuoi sapere se sono sola?
- Vorrei sapere se c’è qualcuno.
- Si c’è. Contento?
- Non lo so. E lui non la vuole una famiglia?
- Potrebbe essere una lei.
Sobbalzai, mio malgrado.
- Scherzo, ma tutto è possibile, sai.
- Non mi stupirebbe nulla da te.
- Non era tua intenzione, ma lo prendo come un complimento.
- Ti diverte scandalizzarmi?
- No, ma mi piace sorprenderti. E’ la quintessenza dell’amore. Ciò che amiamo ha il potere di sorprenderci sempre. Ciò che non amiamo più scivola nella banalità del garantito.
- Allora?
La incalzai, come se la stessi interrogando.
- No, non vuole una famiglia. Ha avuto anche lui la sua e poi… non ho più l’età. Stiamo bene insieme. Ci teniamo compagnia e… abbiamo una buona intimità.
- Mamma, per favore!
Come molti figli conservavo un sano disgusto per la vita sessuale dei miei genitori, a maggior ragione se con terzi estranei.
- Non sono ancora da buttare, sai?
La guardai. No, non era da buttare. Per certi versi non era mai stata più bella. Le rughe sottili sembravano incorniciarla più che segnarla. Le labbra avevano perso un po’ del loro turgore ma i contorni restavano netti, anche se quello che la rendeva bellissima era il modo in cui parlava, come se l’aria le appartenesse.
- Questo solo per dirti, Marcello, che per me l’amore segue l’anima. Se fossi rimasta una ragazzina ignorante e curiosa credo che sarei rimasta con Sergio, se per me la famiglia “normale” fosse rimasta un sogno e una priorità di vita, sarei rimasta con tuo padre. Se avessi avuto ancora bisogno di attenzione, venerazione e amore incondizionato, sarei rimasta con Pietro. Ciascuna di queste storie è stata importante per me. E’ stata vita, crescita, è stata tutto. Poi, a un certo punto, ha smesso di esserlo. E ha smesso di esserlo proprio perché ha assolto il suo compito. Come se ogni storia avesse in sé anche la propria fine.
- Vuoi dire che l’amore eterno non esiste?
- Tutt’altro. L’amore ha bisogno almeno dell’illusione dell’eternità. Ma perché l’amore tra due persone duri per sempre, l’evoluzione di tutti e due deve andare in direzioni che siano… compatibili. Che si integrino. Oppure…
- Oppure?
Mia madre guardò la statua dei due amanti abbracciati.
- Oppure se nessuno dei due cambia, se si resta immobili.
- Io, credo che il tuo sia un ragionamento cinico e opportunista, mamma. L’amore è impegno. Io mi sposo perché credo in questo impegno. Lavorerò con Lucia perché il nostro rapporto cresca insieme a noi, perché continui ad avere un senso e non lascerò che sia la vita a decidere per me.
- Sono felice per te se credi che sia possibile. Lo credo anche io, in un certo senso. Solo che finora non mi è successo. O non ci sono riuscita.
Restammo in silenzio. Un grillo aveva iniziato da poco il suo canto nuziale. Mi godetti quell’istante, non c’è intimità più grande che condividere il silenzio con qualcuno. Un silenzio pieno come una promessa.
- E da che lo capisci? Le chiesi dopo un po’
- Capisci cosa?
- Che è la persona giusta per quel momento. Hai dei parametri? Un test?
Ridemmo insieme. Poi d’improvviso lei si fece seria.
- Ho un metodo infallibile.
- Sono curioso.
- Lo capisco dall’odore.
Ancora oggi non ho capito se scherzasse oppure no e non ho mai voluto chiederglielo. Era tardi, mi alzai per andare a dormire.
Lei sollevò il viso verso il mio. La baciai sulla fronte, come si fa con i bambini.
- Buonanotte mamma.
- Buonanotte sussurrò.
Immaginai di vedere una lacrima nei suoi occhi, ma forse non c’era.
Prima di rientrare mi voltai di nuovo a guardarla. Stava fissando la statua degli amanti, quella che difendeva dai rampicanti, perché la vita la lambisse, senza corromperla.



mercoledì 21 novembre 2012

La Macchina di Marco


- Allora, la mattina andiamo dal cliente, il pomeriggio passo a dare le condoglianze alla famiglia di Marco.
- Va bene.
Ho risposto quasi in automatico, il mio amico, con cui qualche volta lavoro, mi aveva parlato di questo ragazzo con cui aveva lavorato e che era morto a 30 anni, divorato da un cancro in meno di due. Volato via, in meno di quattro mesi.
Ho immaginato che lo avrei aspettato da qualche parte, per non violare troppo l’intimità del dolore della famiglia, magari in un bar, a lavorare con il mio computer.
Ma il mio amico le cose me le dice un pezzo alla volta. Qualche giorno dopo aggiunge, bisogna prendere la macchina aziendale di Marco, quindi andiamo con una macchina sola e torniamo con due.
- Va bene, rispondo di nuovo.
Ma sono un po’ turbata. E non so neanche bene perché.
Così la mattina presto partiamo, parliamo del cliente che andiamo a visitare, glissiamo sull’argomento Marco. La conversazione scivola su mille cose.
E’ a pranzo, seduti a un tavolo vista mare, che gli chiedo come siamo organizzati dopo.
- Ci viene a prendere la sua ragazza dal casello e ci accompagna dai suoi.
Fuori dalla finestra guardo il cielo bianco di nuvole e le onde spumose che la sabbia trasforma in un color caffellatte chiaro.
- Deve essere terribile perdere un figlio.
Mi sento già trascinare nel gorgo dei luoghi comuni.
Non ci sono parole. E’ la perdita più grande. Speriamo non fosse figlio unico. Be’, non perché il dolore sia meno forte, ma perché ti dà una ragione per andare avanti comunque, dopo. Si delega ai figli una parte di sé. Non si dovrebbe fare, ma si fa.
Mi torna in mente lo sguardo di una donna che aveva perso uno dei suoi due figli in un modo terribile. Guardandola negli occhi si sapeva, era chiaro, che una parte di lei era morta. Per sempre. Per sempre.
In macchina il mio amico chiama la ragazza di Marco. Sì, ci vediamo al casello, che macchina hai? D’accordo, a tra poco.
Arriviamo al casello. Lui scende, lei scende. Si salutano. Non ha l’aria distrutta. E’ una ragazza. Ma come me l’aspettavo? Non lo so neanche io. Non scendo dalla macchina, la saluterò dopo. Lei mi guarda fa un cenno con la testa. Io sorrido, sentendomi l’essere più inutile della terra.
Arriviamo a casa dei genitori di Marco. Scendo e saluto la ragazza, lei sorride, io resto un po’ a guardarla, poi sempre sentendomi l’essere più inutile della galassia le do due baci.
Saliamo le scale che portano all’appartamento. Davanti alla porta aperta, una coppia di mezza età, non sono molto alti, anche loro sorridono, e ci dicono di accomodarci.
Appoggio la borsa, mi tolgo il cappotto e la sciarpa domandandomi dove posso appoggiarli. E sento quanto ogni pensiero banale sia un’ancora in un mare che ancora non so che cos’è. Rimango un po’ con la sciarpa ammucchiata davanti a me, tenendola con entrambe le  mani. Poi la faccio scivolare sul divano alle mie spalle.
- Come state? Chiede il mio amico.
Alla mamma sfugge un piccolo pianto, ma sommesso e subito trattenuto, come se il dolore, in qualche modo, non fosse lecito.
Le tre figure composte sono sedute di fronte a noi. Due genitori di un figlio unico, morto in due anni, la sua ragazza. Nessuno di noi piange.
Il mio amico parla di lui, di quanto fosse bravo e apprezzato. Loro parlano della sua agonia ma anche del suo attaccamento al lavoro, del timore che aveva che avrebbe perso il lavoro per colpa della malattia, di quanto quello che faceva lo appassionasse.
Poi la conversazione scivola sui progetti futuri dell’azienda, sulla congiuntura economica. Il mio amico parla dei nuovi programmi per il prossimo anno e loro lo ascoltano tutti interessati. La foto di Marco, appoggiata alle spalle del mio amico, mi sorride. Lo guardo e cerco di conoscerlo. Sento tutto il dolore che le parole non dicono perché lui se ne è andato. Sento tutta la dignità di queste persone che cercano di ricordare senza straziarsi, senza straziarci. E mi sento un’estranea anche se ogni volta che guardo la mamma di Marco mi verrebbe voglia di prenderle le mani, di abbracciarla, di dirle: le do il mio telefono se avesse bisogno… di che?
Si scambiano documenti, coordinate bancarie, codici fiscali, computer, telefonini.
Alla fine sono io a dire: è ora di andare, senza capire se la nostra presenza è un dono o un ingombro. Nel salutarci di nuovo la mamma ha un sussulto. Il papà ci dice, nella macchina c’è un ombrello, glie lo avevo messo io.
Guarderemo tutto, rispondiamo, toglieremo quello che gli apparteneva.
Andiamo a prendere l’auto dalla casa della sua ragazza. Lei guarda in su, verso un appartamento con le luci spente.
- Eravamo andati a vivere lì, prima che lui stesse male. Avevamo fatto i lavori. Marco li aveva seguiti, anche se stava male.
Apriamo l’auto, tiriamo fuori tutto. Poche cose. Nel bagagliaio c’è l’ombrello. Salutiamo con poche frasi di circostanza. Il mio amico ha gli occhi pieni di lacrime. Le parole sono finite.
Entro in auto, metto in moto. L’orologio è ancora sull’ora legale. Un’ora in più.
Il mio viaggio di ritorno è senza musica. Qualche telefonata, per parlare di Marco, con qualche amica. Tutte dicono, è terribile.
Penso ancora alla conversazione tra me e il mio amico mentre andavamo dalla casa dei genitori di Marco a quella della sua ragazza per prendere l’auto.
- Era figlio unico. Dio mio, ora come andranno avanti?
- Non so, speriamo che alla fine di tutto questo troveremo un senso. Marco deve stare in un posto migliore.
Lo diciamo con rabbia, ma senza convinzione. L’incontro con questo dolore è stato come uno tsunami emotivo. Siamo atterriti a guardare le conchiglie che il mare ha lasciato ritirandosi , perché sappiamo che tornerà.
Dopo il viaggio lasciamo l’auto nel parcheggio dell’azienda.
- Non dimenticare niente dentro. Domani va a Napoli.
Annuisco. Sbircio nell’abitacolo vuoto. Non c’è più niente di mio. Neanche di suo. E domani va a Napoli.
Entro nella mia macchina. Di nuovo sola, penso alla sala da pranzo illuminata. La mamma di Marco ci ha comprato i pasticcini alla crema e le paste secche.
- Volete un caffè? Ci dice affabile.
E so che la vita prenderà il sopravvento e questa sarà soltanto una delle tante storie di ieri.
Almeno per me.

lunedì 19 novembre 2012

MANOVRA IMPOSSIBILE



Huker sentiva la testa martellargli, come sempre, dopo un litigio con Sunda. Si chiedeva spesso se sua moglie avesse fatto un corso specifico per imparare a dargli sui nervi o se fosse un talento naturale. Era un dubbio che probabilmente non avrebbe mai risolto. Attivò lo spazio-sensore della navicella. La propaggine traslante anteriore entrò dalla finestra del suo appartamento al trentacinquesimo piano. Soffriva l’altezza, ed era costretto a scegliere sempre piani sotto l’ottantesimo, questo lo obbligava a soffrire tutte le pene della salita dell’uovovettore quando doveva prendere l’aero-robot dall’hyperbox sul tetto del grattacielo.
Almeno l’uovovettore era dotato di dispositivi di stazionamento e riequilibratura che impedivano di sentire il dislivello della salita. I visori tridimensionali erano studiati per persone che soffrivano di vertigini come lui e davano la sensazione di planare lentamente a pochi centimetri dal suolo.
La propaggine traslante s’infilò nella navicella metallica ancorata a un migliaio di metri dal suolo scodellando Huker con dolcezza sul sedile dell’aero-robot Ygar 3600.
Al contatto del corpo di Huker con il sedile, il casco trasmettitore scivolò sulla sua testa e il sedile si incurvò lentamente prendendo la forma che, secondo il dipartimento di medicina interplanetario, era il più opportuno in considerazione della struttura ossea di Huker, dei carichi che stava portando, e del tipo di alimenti che aveva ingerito nelle ore precedenti.
Sullo schermo della consolle, apparve il messaggio di benvenuto, che partiva assieme alla musica di apertura, un motivo popolare in quel momento che Sunda aveva scelto.
Sunda era più portata di lui per la tecnologia, e aveva predisposto lei i settaggi dell’Ygar 3600. Huker si era limitato a richiedere un paio di personalizzazioni, per le quali Sunda aveva commentato, con aria di sufficienza:
- Tutto qui?
Dopo il messaggio di benvenuto era partita la schermata di check up di Ygar 3600. In un tempo quasi impercettibile il veicolo veniva esaminato minuziosamente. In caso fosse stata necessaria la manutenzione, l’auto-robot si sarebbe messo in contatto direttamente con la casa produttrice che avrebbe scelto l’officina utile più vicina.
- Maledizione!
Huker era un uomo d’indole pacifica, la mattinata però era stata carica di eventi spiacevoli e quello che apparve sullo schermo era solo la ciliegina sulla torta.
Manutenzione straordinaria – recarsi su Elios VI per intervento urgente – priorità massima”.
Questo voleva dire diverse cose, una tra tutte: l’intervento sarebbe stato a carico dell’azienda produttrice. Il pensiero non diede a Huker alcun sollievo. Nulla avrebbe impedito il litigio che sarebbe scoppiato tra lui e Sunda. Gli sembrava di sentirla:
- Dovevi venire a prendermi alle otto. Mai che tu faccia una cosa in tempo... Non si può mai fare affidamento su di te!
Al pensiero Huker spinse il pulsante di partenza. Forse non sarebbe dovuto partire, forse sarebbe dovuto rimanere lì a decidere il da farsi, o forse avrebbe dovuto chiamare Sunda dall’infocom per spiegarle la situazione. Ma non ne ebbe il tempo.
L’auto-robot era partito con un guizzo metallico e in pochi secondi aveva percorso centinaia di chilometri spaziali, una distanza enorme. Sapeva già dove dirigersi.
Il sistema di automanutenzione, con i mezzi più moderni, era stato completato da un sistema di navigazione intergalattico sofisticatissimo. I due sistemi interagivano e non appena l’elaboratore principale trasmetteva il segnale di manutenzione, dal navigatore intergalattico partiva la ricerca dell’officina più vicina. Una volta individuata l’officina, il sistema la definiva come destinazione, calcolava il tempo di navigazione, il fabbisogno di energia e le eventuali soste di recupero, il tutto senza che la persona a bordo dovesse fare nulla. O anche, semplicemente, potesse fare nulla.
Huker si rilassò. Era talmente arrabbiato con Sunda, quando era uscito di casa, che non aveva preso con sé nulla per passare il tempo. Normalmente gli piaceva, durante il percorso, fare delle copie di se stesso con il neurosimulatore. Aveva inventato centinaia di possibilità, come sarebbe stato se avesse avuto genitori diversi, se avesse fatto studi diversi, se non avesse sposato Sunda. Era solo un gioco, però, ecco, faceva riflettere. Il neurosimulatore, però, era rimasto a casa, in bagno, accanto alla vasca a ultraluci.
Per distrarsi un po’, chiese al sistema di proiettare il manuale d’uso del Navigatore Interstellare Siderius 5.0. La proiezione partì con un sibilo:
Il sistema di navigazione interstellare Siderius 5.0 è il più avanzato sistema di navigazione inventato per orientarsi nello spazio intergalattico. Siderius 5.0 è dotato delle mappe delle maggiori galassie conosciute, ed è in grado di orientarsi sfruttando lo spettro della luce proveniente da ogni corpo celeste. Siderius 5.0, inoltre, è in grado di calcolare il tempo di rotazione di ciascun corpo celeste, la gravitazione reciproca dei corpi, nonché la probabilità di eventi quali comete, meteore, meteoriti...”
Huker si addormentò. Il manuale tecnico continuò la propria spiegazione, mentre Ygar 3600 stabiliva la propria rotta in base alle informazioni che Siderius 5.0 calcolava incessantemente.

- Che vuol dire?
- Quello che ho detto Reus. Esattamente quello che ho detto.
Reus Fiutre si alzò dalla scrivania fluttuante e si fece scivolare sulla rampa d’appoggio in metallo. Amava il design ardito, amava tutto ciò che era audace.
- E’ scappata?
- Direi di sì. In realtà credo che, a rigore, sia semplicemente andata via. Credo fosse suo diritto. – l’ingegnere capo disse l’ultima frase con voce sommessa. Sapeva quanto Reus fosse restio a negare qualunque diritto al di fuori dal proprio.
- Suo diritto un corno! Lei può andare dove diavolo vuole, ma i progetti? I manuali? I disegni? Sono della Ygar, non può farci quello che vuole, no?
Desker, l’ingegnere capo guardò a lungo il pavimento della stanza sotto i propri piedi, fino ad apprezzare ogni piccola scheggia di cristallo luminescente. Alla fine, alzò la testa per dire, con malcelata mestizia:- Non proprio, Reus...
- Che diamine vuol dire: “non proprio, Reus”? – esplose Reus, tentando di scimmiottare, nell’ultima parte della frase, il tono dolente di Desker.
- Vuol dire che... Quando ha depositato i progetti, l’ha fatto a proprio nome, non a nome dell’Ygar Inc. Sono suoi, e può farne quel che vuole, questo vuol dire.
- Legalmente non possiamo fare nulla?
- Direi proprio di no.
Reus era furioso. Quella piccola... L’aveva detto e l’aveva fatto. Anzi, “quasi” fatto.
Kelen era di una bellezza ammaliante e di una sensualità impareggiabile. Era anche orgogliosa e gelosa. Aveva accettato di rimanere a lavorare alla Ygar dopo l’inizio della loro relazione, ma aveva posto alcune precise condizioni. Non voleva promozioni o favoritismi, desiderava solo poter continuare a lavorare sul progetto Siderius 5.0 da sola e prendere una percentuale su quello che la società avrebbe guadagnato dalle vendite del prodotto.
A Reus era parso un affare d’oro. Kelen Geis era l’ingegnere più brillante della sua società e gli sembrava che le condizioni da lei poste fossero ragionevolissime, persino un po’ futili. Aveva attribuito la richiesta all’orgoglio di Kelen, alla sua ingenuità, unite al fatto di aver perso la testa per lui.
Forse” pensò “non era poi così ingenua”.
Doveva ammettere che aver depositato i progetti a proprio nome era stata una bella mossa e, nel medio termine, avrebbe potuto causare qualche problema.
Una delle ragioni del successo dell’Ygar 3600 era stata l’installazione di serie di Siderius 5.0. Se Kelen avesse venduto l’idea ai concorrenti sarebbe stato un brutto colpo. Ma Reus avrebbe saputo farla ragionare.
Il loro ultimo colloquio si era chiuso in maniera piuttosto spiacevole. Ma si sa, quando una storia finisce, volano parole grosse.
- Io ti rovino! – gli aveva detto Kelen, con freddezza.
All’inizio la cosa lo aveva un po’ spaventato, ma poi si era detto che il massimo che poteva fare era causargli qualche piccola bega legale. I suoi avvocati erano i migliori. L’ingegner Geis avrebbe fatto meglio a mettersi l’anima in pace: se pensava di rovinarlo per così poco, non conosceva le risorse di Reus Fiutre.
- Va pure Desker. Chiama i tuoi ingegneri, voglio un piano per fronteggiare l’emergenza entro domani. Voglio una stima accurata di quanti Ygar 3600 sono stati già prodotti col sistema Siderius e quanti sono ancora in produzione. Voglio inoltre che chiami a rapporto il nostro gruppo tecnico, ho bisogno di sapere che cosa conoscono del sistema e se sono in grado di copiarlo. Voglio poi un rapporto dell’ufficio legale. Voglio sapere se possiamo rivalerci nei confronti di Kelen e, soprattutto, come possiamo continuare ad installare il Siderius ora che lei non è più nella società. Chiaro?
- Chiaro.
Desker uscì dalla stanza con la testa bassa. Conosceva Kelen e l’ammirava. Quella mossa gli sembrava al di sotto delle potenzialità del giovane ingegnere, la donna più bella e più in gamba che avesse mai conosciuto. Sentiva campanelli d’allarme e brividi per tutto il corpo. Dalla cintura a pulsioni digitò il codice d’emergenza. In quell’istante ogni ingegnere dell’Ygar Inc. veniva risucchiato nel tunnel preferenziale in direzione della sala riunioni principale.

Huker si risvegliò di colpo. Aveva una sensazione di panico e non capiva perché. Quando guardò il visore tutto gli fu più chiaro. Sunda lo stava cercando. Rispose alla chiamata.
- Huker?
- Sì, Sunda.
- A che ora pensi di passare?
- Sarò un po’ in ritardo, ho dei problemi con l’auto-robot. Ti chiamo non appena arrivo all’officina.
- Huker...
- Conosci le procedure, non avrei potuto passare a prendere te, prima di passare dall’officina neanche se avessi voluto.
- Non fare troppo tardi. A dopo.
Huker sapeva che non sarebbe servito. Era colpevole agli occhi di Sunda. Era passato un po’ di tempo, in effetti. Huker trovò strano non essere già arrivato a destinazione. L’officina doveva essere lontana, il che era piuttosto insolito.
Gli bastò una rapida occhiata al visore per capire che erano andati ben oltre l’officina, erano andati ben oltre i confini del sistema planetario.
In quel preciso istante, lo Ygar 3600 stava lasciando la galassia.

- Reus...
Reus Fiutre guardò la sua assistente, Osiu, entrare nell’ufficio tramite la porta a strati concentrici. Era un bello spettacolo, Osiu era stata un ottimo acquisto a parte il ruolo che aveva avuto nella faccenda Kelen. Le cosce più conturbanti del pianeta: Reus ne era ormai certo.
- Dimmi.
- Il nostro sistema di controllo riporta qualche problema.
Osiu fece scivolare nel visore un goccio-doc. Il tubo si riempì in un attimo e di fronte a Reus si materializzò il rapporto del sistema centrale.
Reus ebbe bisogno di qualche minuto per comprendere la portata di quello che stava accadendo.
- Che vuol dire?
Osiu era sparita. Aveva previsto la domanda e non avrebbe saputo rispondere: per questo aveva chiamato Desker, che aveva lasciato la riunione degli ingegneri per correre nell’ufficio di Reus. “Kelen... Che donna!”, aveva pensato, leggendo il rapporto.
- Desker, che sta succedendo?
- Non lo so, Reus. Da quello che siamo riusciti a capire, tutti gli Ygar 3600 partiti oggi hanno ricevuto un segnale di manutenzione obbligatoria. Nessuno dei milioni di veicoli partiti ha però mai raggiunto un’officina.
- E dove sono finiti?
- Sembrerebbe fuori dal sistema... e dalla galassia. Fuori da ogni controllo.
Kelen! Quindi era questo. La piccola serpe!
- Io ti rovino!
Reus non rispose. I soccorsi, le assicurazioni, il risarcimento danni, l’immagine. Proprio così: era rovinato
- Se ti serve qualcosa...
Reus rimase immobile.
Desker lasciò l’ufficio. Non sarebbe stato difficile trovare lavoro per un ingegnere della sua esperienza. Certo la reputazione della Ygar Inc. aveva ricevuto un duro colpo, ma lui non aveva mai lavorato sul Siderius 5.0.
Osiu stava portando via le proprie cose.
- Desker, mi dai un passaggio?
Desker la guardò, la bella schiena curva, le cosce ritte sui tacchi. Reus aveva gusto.
- Come no! Andiamo.
Huker non capiva che cosa stesse succedendo, si era avvicinato ad una zona sconosciuta e stava orbitando attorno ad un grosso pianeta. Non riusciva ad impostare alcuna destinazione sul Siderius né a comunicare con nessuno.
Dal visore partì un com-messaggio.
“Gentili signori, ci spiace molto per l’inconveniente, dovuto ad un guasto del sistema di navigazione. E’ impossibile, purtroppo, recuperare le vostre navicelle. Inserite le vostre propaggini traslanti, vi trasporteremo su una nave di soccorso che vi riporterà tutti a casa. Probabilmente saranno necessari più viaggi, ma pensiamo di riuscire a completare il trasporto in tempi ragionevoli. Inserite il vostro codice di priorità per aiutarci a stabilire l’ordine di partenza. Il trasporto inizierà tra cinque minuti. Grazie
Huker inserì il codice più basso. C’erano certamente persone che avevano cose più importanti da fare che andare a prendere Sunda. Si mise in attesa.

- Kelen... – L’ingegnere capo della Gurdan, diretta concorrente della Ygar, guardò la donna con un misto di ammirazione e timore.
- Sì?
- Che facciamo degli Ygar rimasti in orbita intorno al pianeta?
- Distruggiamoli. 

Gli Ygar distrutti furono ridotti in particelle piccolissime che ancora oggi si possono osservare intorno al pianeta, un gigante gassoso alla periferia del sistema planetario di una stella gialla, nota ad alcuni come Sol.
Da lontano sembrano un immenso unico anello.