“Vieni a giocare, Nené?”,
“Vin c’ nuj…”, Vieni con noi.
Nenè teneva la rezza, la leggera tenda di tela bianca
davanti all’uscio di casa, sollevata con una mano, gli occhi fissi sul gruppo
delle compagne senza dire una parola, arrossendo.
“No, non iusc…”. Alla fine riuscì a dire. Non oggi. Rosetta
fece spallucce e si allontanò correndo, seguita dalle altre. Solo Teresa rimase
un attimo sospesa con la mano protesa davanti a sé in un vano gesto d’offerta.
Nenè scosse il capo sorridendo mesta. “va’, va’...”. Ed
anche Teresa alla fine corse via, le calzettine corte bianche sfilavano un
passo dietro l’altro in una nebbia di polvere bianca.
Nenè restò a guardarle ancora un attimo pensando che
sembravano farfalle, o foglie d’autunno, quando il vento le fa girare.
- Arrivo Ma’ - gridò verso il buio all’interno della casa e
rientrò.
Lucia non girò neanche la testa al rumore dei suoi passi.
Piegata in due sul forno da pulire le indicò lo straccio. Nené lo prese e
silenziosamente riprese a sfregare mattonella dopo mattonella il pavimento
logoro.
Era il suo ultimo anno di scuola, lei lo sapeva. Aveva
dodici anni e non avrebbe continuato a studiare. I suoi genitori avevano fatto
un grande sacrificio a mandarla alle elementari, anche se con due anni di
ritardo.
Sapeva leggere e scrivere ora, però, faceva addizioni e
sottrazioni su quaderni impeccabili che dopo un po’ di tempo avevano un odore
di legume secco.
Le sfuggì una lacrima che asciugò rapida col dorso della
mano, come fosse sudore. Poi, con un gesto naturale, posò lo straccio, asciugò
le palme delle mani strofinandole con forza sul grembiule che le pendeva sulle
cosce e annodò le trecce pesanti dietro la nuca.
Si rivedeva in classe, le ginocchia a malapena contenute nel
banco troppo piccolo per lei. Non le importava, anche se dopo un po’ le gambe
le facevano male e qualche volta la polvere del gesso la faceva starnutire.
“Comme sei alta”… le dicevano tutti. Più alta di molte
maestre, a momenti del direttore della scuola. Gli occhi bassi, Nené si
incurvava, si appiattiva, proprio lei che avrebbe voluto sparire dalla faccia
della terra, che si sarebbe voluta dissolvere nell’aria se appena qualcuno la
guardava, era costretta a svettare come una bandiera in una parata militare.
Sembrava grande, più grande, e si sentiva ridicola quando
voleva giocare con le altre bimbe che sovrastava di una testa.
Solo per mammà era piccola. Mammà non era il tipo da carezze
o abbracci, ma quando erano sole, e mammà poteva fingere di dormire di fronte
al braciere, anche Nenè fingeva di addormentarsi con la testa sulle sue
ginocchia. Le dita di mammà, dure e nodose, carezzavano la nuca di Nenè, solo
qualche istante, a Nenè bastava.
Ricordava ancora il primo giorno di scuola, c’era una certa
mestizia nella classe, il ritratto del re dietro la scrivania del maestro era
l’unico addobbo dell’aula, per il resto disadorna. I banchi di legno scuro,
robusti, erano ancora adatti a contenerla. A 8 anni era alta solo come una
bimba di 11.
Il maestro aveva sollevato lo sguardo dal registro
all’improvviso, come se solo allora si fosse accorto della presenza dei
bambini. Si era lisciato i baffi ed aveva assunto un’aria austera. Si era poi
drizzato sulla sedia e aveva cominciato a parlare in Italiano, cosa che
normalmente intimidiva, soprattutto dei bambini così piccoli. “Dunque, adesso
chiamerò i vostri nomi, prima il cognome e poi il nome, e voi dovete alzare la
mano e dovete dire “presente!” e aveva cominciato l’appello:
“Ammassari Nunzio, Barbati Maria…”
A Nenè sembrava la stessa cantilena del rosario solo che
invece dei Santi c’erano i cognomi e invece di “Ora pro nobis”, c’era
“presente!”.
“Santamaria Eugenia”… Nenè si guardò intorno, Eugenia era il
suo nome, ma Santamaria non era il suo cognome. Suo padre si chiamava Lopriore
Nicola. Le bambine in classe erano solo
10 e nessuna di loro si chiamava Eugenia. Teresa, seduta al banco accanto a lei
le sussurrò, “Nenè, sì tu!”. Nenè alzò la mano riluttante. Se avesse avuto il
coraggio avrebbe detto al maestro che il cognome era sbagliato, ma disse solo
“presente”.
Il maestro continuò, “Quando vi rivolgete a me mi dovete
chiamare “Maestro”. Dovrete obbedirmi sempre. Quando siamo in classe io conto
più dei vostri genitori. Quando vi assenterete…”
Tutta la scolaresca ascoltava col fiato sospeso. Matteo, in
ultima fila aveva quattro dita della mano nel colletto e sembrava si sentisse
soffocare, Tonino, si tormentava la crosticina che si era formata sul suo
ginocchio giocando al “Cazz cavell sott” il pomeriggio precedente. Al suo turno
era saltato con furore con entrambe le mani sulla schiena di Nardino che era
stramazzato sotto il peso. Erano finiti entrambi nella polvere, sul pietrisco
appuntito.
Nenè restò in silenzio per tutto il resto della mattinata.
Mentre il maestro spiegava che cos’era la scuola e quali erano i loro doveri,
gli orari, la ricreazione e tutto il resto.
Poi spiegò loro che cosa avrebbero dovuto comprare, i
quaderni, i libri, le matite, la carta assorbente. Mise tutto sulla scrivania
per farlo guardare ai bambini che non avrebbero saputo come scrivere l’elenco,
così come non avrebbero saputo farlo molti dei loro genitori.
La campanella della fine delle lezioni echeggiò stridula nei
corridoi. “Ora dai primi banchi mettetevi in fila per due. Andremo insieme
verso l’uscita”. I ragazzi si accalcarono intorno alla porta dandosi spallate.
Il maestro ne afferrò due per le spalle e li mise fianco a
fianco. E fece lo stesso con tutti gli altri finché non vi fu una doppia fila.
I bimbi erano ancora incerti sul da farsi.
Il maestro spazzò la fila con lo sguardo. Poi si mise
davanti alla piccola coda dicendo, sussiegoso: “E ora, venite dietro di me”.
Giunti sul piazzale davanti alla scuola il maestro annunciò
“ora potete andare”.
Come se delle funi invisibili si fossero spezzate la fila
dei ragazzi esplose in varie direzioni, correndo, saltellando, piroettando.
C’erano delle signore che aspettavano fuori, i lunghi
vestiti scuri o fiorati, i capelli raccolti in crocchie, in code tese, i
bambini in braccio. Qualche sorella maggiore con le gonne già lunghe. E Lucia.
Nenè si avvicinò a Lucia con circospezione, come se il
silenzio fosse divenuto ad un tratto un dono fragile e qualunque suono, persino
un movimento brusco, avrebbe potuto infrangerlo per sempre.
Si avviarono verso casa, Lucia davanti e Nenè appena un po’
indietro.
“Apparecchia Nenè”.
“Ma’, oggi il maestro ha chiamato tutti per nome e cognome e
ci ha fatto dire “presente”.
Lucia continuò ad apparecchiare, stese la tovaglia lisa sul
tavolo di legno scuro ed apparecchiò la tavola. Piatti e posate consumati
dall’uso, relitti di tempi migliori.
“Ma’… il mio cognome è Lopriore?”
Lucia trattenne il respiro. Non ci aveva pensato.
Semplicemente non ci aveva pensato.
“No, non è Lopriore. E’ Santamaria.”
“E’ così che ha detto il maestro. Ha detto Santamaria, ma
pensavo che si sbagliava”.
“Non si sbagliava Nenè, mo’ mangia. Stasera quando papà va a
letto ti spiego tutto”.
Lucia riuscì soltanto a guardare la minestra di ceci che
aveva davanti spostandoli da un bordo all’altro del piatto. A fine pranzo con
rabbia buttò via il cibo. Non era una donna di pianto, era una donna di rabbia.
Schiacciava il dolore sotto il tallone come Maria il serpente.
La sera cenarono in un silenzio più fitto dell’abituale.
Nenè cercava di calmare Francesco che stava piangendo, mentre Nicola piccolo
finiva la sua porzione di grano e cipolla con lo sguardo corrucciato.
Alla fine della cena tutti “i maschi” andarono a dormire,
Nenè e sua madre rimasero a sparecchiare, spazzare e lavare i piatti con
l’acqua dei secchi che veniva dal pozzo.
Quando l’ultimo piatto fu asciugato, Lucia si sedette sulla
sedia davanti al braciere e fece cenno a Nenè di avvicinarsi.
“Miettite ddù, qui azzecc a me”. Nenè si sistemò accanto alla
madre, in ginocchio, la testa appoggiata alla sua coscia, il viso rivolto verso
il braciere rifletteva riverberi purpurei nella stanza buia.
“Dobbiamo parlare piano, perché stanno tutti a dormire”
Sussurrò Lucia, “Abitavamo a Farignano con papà, ed io era giovane” non si
domandava Nenè perché l’imperfetto, Lucia lo usava alla terza persona singolare
anche se parlava di se stessa. D’altronde così facevano quasi tutti.
“Ci eravame sposate da poco, ed io ero uscita incinta, sai
che vuol dire Nenè?”
Nenè annuì, la piccola nuca balenò un istante tra le trecce
scure. Nenè lo sapeva, erano nati due
fratellini dopo di lei, e quando Mammà era uscita incinta di Francesco lei
aveva già 5 anni.
“Era il mio primo figlio Nenè, una figlia. In onore a
Sant’Anna la chiamai Anna, la chiamavamo Nenè”.
Lucia continuò il racconto lentamente, sottovoce.
Era autunno, si avvicinava il freddo, non era importante
ricordarlo, eppure lo ricordava. Nenè aveva pochi mesi e una mattina molto
presto Lucia era stata attanagliata dalla quiete. Senza svegliare Nicola s’era
avvicinata alla culla di Nenè. Tutto era calmo e silenzioso, troppo calmo,
troppo silenzioso. Lucia si avvicinò per ascoltare il respiro della creatura
rannicchiata. Non c’era il respiro.
Lucia ricordava poco di quello che era seguito. Poi le
avevano raccontato, di un grido che aveva graffiato la notte, singhiozzi che
terminavano in un lamento.
Lucia non raccontava proprio tutto a Nenè, che teneva
davanti a sé con la testa sulle sue ginocchia, il riverbero del braciere che
illuminava le ciocche sfuggite alle trecce. Le raccontava l’essenziale, come
gocce sottili che faceva trapelare dall’oceano rigonfio delle proprie emozioni.
I fatti a Nenè, il dolore per sé.
Era diventata un’ombra accanto alla finestra, Nicola non sapeva
che dire. Sfilavano spettri davanti alla sua porta:
“se vi serve qualcosa, basta che lo dite, commara Lucia,
basta che lo dite”.
Lucia annuiva, ammantata dal dolore. Il dolore per la morte
di un figlio è come un piedistallo altissimo su cui nessuno può salire, tutto è
distante.
Due sere dopo, no, non era passato tanto tempo, dalla porta
entrò una signora alta e snella. Lucia sollevò lo sguardo e la vide meglio. Era
giovane, poteva avere poco più di vent’anni ed era vestita come una signora,
aveva pure il cappello.
“Buonasera signora Lucia”, disse d’un fiato, come se temesse
di essere interrotta, poi, senz’aspettare risposta, domandò:
“mi posso sedere?”
“sedetevi, prego”, rispose Lucia.
“vi ringrazio, siete molto gentile. Sono Rachele Serani”.
Era la sarta più famosa del paese, Lucia lo sapeva, aveva
come clienti solo i ricchi possidenti ma nonostante Nicola, il marito di
Lucia, avesse goduto di una discreta
fortuna in passato, Lucia non aveva avuto modo di avere a che fare con lei. La
guardava e non capiva.
Rachele fece un respiro profondo e si mise la mano sul petto
come per impedire al proprio cuore di sbalzare dalla minuta cassa toracica.
Nonostante l’altezza e l’eleganza Rachele dava un’impressione di delicatezza,
quasi di gracilità. La carnagione diafana si stendeva sottile sulle ossa del
viso, gli occhi azzurri erano come spiritati nel viso smagrito e patito. I
capelli raccolti in uno chignon alla base della nuca sembravano essere stati
appena scompigliati da un vento leggero.
“So quello che vi è successo, commara Lucia, e per questo mi
rivolgo come madre, ad una madre”.
Lucia sobbalzò, nulla della figura seduta sulla sedia di
legno di fronte a lei le evocava l’idea di una madre. Rachele proseguì.
“Non ho nemmeno il diritto di parlarvi!”. Rachele si nascose
il viso tra le mani, mentre le lacrime trattenute le irrigidivano le spalle e
le facevano contrarre il petto.
Rachele aveva conosciuto il figlio del più ricco
proprietario terriero del paese, un bel ragazzo abituato agli agi e con molto denaro.
Lei si era follemente innamorata e aveva ceduto alla sua proposta di una fuga.
Le cose però si erano rivelate assai più difficili del
previsto, i genitori avevano rintracciato i transfughi e avevano minacciato lo
sventatello di requisirgli tutti i beni dei quali poteva disporre e di privarlo
di ogni futura fortuna se non fosse tornato in sé e abbandonato la donna della
quale s’era incapricciato.
A Rachele non rimasero che il rimpianto, il pentimento, ed
il frutto di quella passione.
“una bambina signora Lucia, che mi è nata qualche mese fa”.
Rachele prese entrambe le mani di Lucia tra le sue. Negli
occhi sbarrati tremava una luce di lacrime.
“Voi avete ancora il latte, vero?”
Istintivamente Lucia si portò le mani al seno. S’era
dimenticata del dolore dei seni rigonfi in quello più grande della morte della
sua bambina. Annuì, “Sì, ancora lo tengo”.
“Io non ne ho commara Lucia, come vedete, a malapena mi
reggo in piedi, ma sono venuta da voi perché siete la nostra sola speranza, mia
e di Eugenia.
Vi prego, datele il vostro latte, vi prego, commara Lucia,
vi compenserò come meglio potrò. Se voi mi terrete la bambina, io potrò
riprendere a lavorare e riprendermi io stessa.”. Dopo una pausa aggiunse, con
un filo di fiato “Vi potrebbe portare un poco di consolazione”.
Lucia non la stava quasi ad ascoltare. Aveva ancora le mani
appoggiate ai lati di ciascuna mammella. Alle parole “datele il vostro latte”
un ondata calda le aveva bagnato il seno e aveva ricordato gli attimi preziosi
in cui Nenè si attaccava ai suoi capezzoli e lei quasi distratta chiacchierava
con una vicina o pensava a quello che avrebbe preparato per Nicola. Mai però
perdeva il senso del miracolo che aveva tra le braccia, del pulsare prezioso
delle labbra rosee appena appoggiate al capezzolo che cominciavano a suggere
con forza. “Come l’ape il nettare da una rosa”. Così le avevano spiegato una
volta quand’era ragazzina.
“Portatemela, signorì. E ora scusate”.
Rachele era scivolata oltre la porta rapida e silenziosa.
Forse aveva pianto ancora nella strada, scivolando accanto alle porte
semichiuse. Dalle case odore di cena, voci di padri, di bambini e di madri. Un
mondo semplice, distante.
La mattina dopo, davanti alla porta si presentò una ragazza
giovanissima, le gonne lunghe, i capelli raccolti in una coda di cavallo, gli
occhi neri e le guance accese. Stretto a sé aveva un fagotto di stoffa color
crema.
“Cerco la signora Lucia. Siete voi?”
“Sì, sono io. Datemi qua”, facilmente sfilò dalle braccia
della ragazza il morbido e caldo involucro e la borsa che lo accompagnava.
“Ha detto la signora Rachele che ripasso stasera”.
“Come volete”.
Lucia aveva richiuso la porta ed aveva frugato nel fagottino
con l’indice ed il medio. Dai pizzi bianchi era emerso un viso tondo e pallido,
un naso puntuto e un labbro superiore leggermente sporgente sulla bocca rosea.
Istintivamente l’aveva attaccata al seno. Dopo l’aveva
cullata in silenzio, solo ogni tanto mormorando, “bella, bella della mamma sua,
bella...”
La piccola Eugenia era immersa in trine delicate. Le piccole
mani si indovinavano affusolate nelle giunture delle dita. Dall’involucro
tiepido di levava odore di vaniglia. Eugenia dormiva e Lucia ristette qualche
istante con la bimba tra le braccia ascoltandone il respiro leggero. Attraversò
quindi la stanza ed andò verso la culla di Nenè. Con le dita Lucia sfiorò il
lenzuolo, la coperta ed il piccolo cuscino e depose Eugenia nella culla. Aprì
un pochino le trine e le sistemò meglio il bavaglino. Prese una sedia e le si
sedette accanto.
Stette così qualche minuto, poi si alzò, prese la borsa che
la ragazza aveva portato. Conteneva fasce, pannolini e tutto l’occorrente per
cambiare la bambina.
Nella nebbia dei primi giorni a Lucia non parve neanche di
occuparsi di una bambina, le pareva piuttosto di giocare con una bambola di
pezza essa stessa madre di pezza in una sorta d’implacabile smarrimento.
La ragazza si presentava ogni mattina con i suoi due
fardelli e un’aria annoiata. Lucia li raccoglieva e tratteneva a sé fino a poco
prima di cena. Nicola volgeva di tanto in tanto uno sguardo ad Eugenia.
Talvolta gli capitava anche di sorriderle, per distrazione, e di sentirsene
subito dopo colpevole.
Arrivano dei giorni che si imprimono nella memoria a
tradimento, come se il tempo vi avesse scavato la propria orma senza
intenzione, l’impronta di un cane su di una colata di cemento. Il sole
illuminava la tenda di pizzo di un bianco luminescente, il vento faceva rumori
piccoli come di pioggia trattenuta.
Lucia spolverava il pianale di legno dai residui della
farina. Nuvole bianche impalpabili si sollevavano in piccole volute di fumo. Si
appoggiò le mani ai fianchi ed il contatto con le sue proprie ossa la
risospinse indietro nel dolore della memoria.
La vita dei bambini, pensò, è fragile. Piccole bare bianche
nel vicolo seguite da una scia di silenzio, ne aveva viste tante, come foglie
trascinate dai rivoli d’acqua. Le pareva quasi di non aver nascosto abbastanza
bene Nenè prima che l’onda luccicante la portasse via.
Si avvicinò alla porta prima ancora di sentire i colpi
sull’uscio. Protese le mani, in un gesto ormai consueto, per prendere Eugenia.
La piccola spalancò gli occhi e le sorrise cominciando ad agitare le mani.
“Mi riconosce, Nicola”. Fu l’unica frase che Lucia disse a
suo marito quella sera. Nicola non rispose nulla e dopo un breve silenzio si
mise a raccontare di un cane magro, che l’aveva seguito quasi fino a casa.
“Prendetela commara Lucia, prendetela voi”. Rachele non
piangeva questa volta aveva il volto tirato e gli occhi sbarrati di chi aveva
già troppo pianto. “Tenetela voi, non me la fate portare alla ‘Ruota’. Non la
posso tenere io”. Rachele era di fronte a lei, l’abito grigio stretto in vita e
i capelli raccolti in un nastro di seta. “Almeno le potrò stare accanto, potrò
vederla. E poi lo so che le volete bene”
Lucia la guardò, una mano poggiata sulla gonna di cotone
l’altra che fingeva di sistemare una forcina nella massa dei capelli rossi.
Eugenia alla “Ruota”, pensò, i capelli tagliati cortissimi e
la tristezza di quei grembiuli tutti uguali. La fila per andare alla messa ogni
mattina in città, le maestre con i nasi affilati ed i vestiti neri con i
colletti bianchi ingrigiti dall’uso.
Strinse più forte a sé la bambina che stava allattando. “Ne
devo parlare con Nicola”.
“Come volete, commara Lucia, come volete”. Rachele afferrò
le mani di Lucia e vi appoggiò sopra le labbra talmente forte da imprimervi un
impronta bianca.
Nicola arrivò la sera, aprì la porta, con il fazzoletto si
asciugava il sudore dal collo. Lucia si alzò vedendolo entrare e gli si fece
incontro.
“Nicola, la bambina, Eugenia, la teniamo noi, la sarta non
la può tenere”. Nicola sedette, le gambe divaricate, le mani sulle ginocchia.
Dopo un istante riprese ad asciugarsi il sudore sul collo. Lucia proseguì:
“come una figlia nostra”
Nicola si alzò, andò verso il catino dell’acqua. Si voltò,
dopo un lungo silenzio.
“Lucia, che hai preparato per cena?”
“La rape, Nico’, le rape”. Quindi gli diede le spalle, per
andare verso la cucina. La tristezza, stanca, fece scivolare un sorriso.