martedì 30 ottobre 2012

Anniversari


Ho tolto potere alle ricorrenze. Ho tolto potere agli oggetti. Ora non provo più brividi quando vedo una vecchia lettera, un libro consumato, una maglia mai più messa che però non avevo il coraggio di dare via.
E le persone che se ne sono andate non sono più lontane perché la terra si trova nella stessa posizione relativa rispetto al sole, e credo che, considerando l'insieme dell'universo questo non sia neanche troppo vero.
Sento quasi, quando ricordo anniversari mesti, che è come se volessi dare ombra e spessore al dolore per il fatto che sul calendario c'è lo stesso numero, lo stesso nome.
Gli unici anniversari che amo ricordare sono quelli delle cose che nascono, che iniziano, anche se sono già finite. Presupposto fondamentale perché qualcosa possa morire, però, è che sia stata viva.
Secondo questa definizione, alcune persone non muoiono. Strappano tempo alla vita, senza darlo alla morte e il loro spegnersi è uno scivolare mesto da ombra a ombra. Vivono come attori, seduti per errore o smemoratezza dalla parte del pubblico, stupiti che lo spettacolo non cominci.
Così non sarà la vita a finire per loro, ma l'inutile attesa che prima o poi essa abbia inizio.

sabato 20 ottobre 2012

Nostalgie - I sogni di chi è sognato


La bellezza è una professione. Richiede sacrifici, ore davanti allo specchio, ma non basta. La bellezza è anche modo di parlare, di muoversi, di far scivolare i vestiti su di sé.
Lei è nata bella, bellissima, è anche cresciuta bella. Ha sempre saputo che cosa dire e che cosa fare. E’ sempre stata impeccabile. Non ha mai pesato  un etto di più né un etto di meno. Non ha mai avuto l’acne. Non ha mai avuto neanche l’alito cattivo e le ascelle puzzolenti.
E  i  peli superflui le sono sempre cresciuti poco, radi e biondi. Il suo sorriso è sempre stato perfetto senza bisogno di apparecchio. Non ha mai avuto bisogno degli occhiali, né del busto, né tantomeno delle scarpe ortopediche. Nell’aula di danza classica era la più leggiadra, in palestra la capigliatura non le si scompone mai. L’accappatoio non le gocciola e i capelli in acqua le si pettinano automaticamente con il getto della doccia.
Lui è atletico, alto, di buona famiglia. Bravo a scuola senza essere secchione, sportivo senza essere atletico, intelligente senza essere pesante.
Muscoli sodi, non da culturista, tartaruga, ma senza esagerare. L’auto che ci vuole, senza ostentazione e senza modestia.
La va a prendere e la porta al ristorante giusto, alla moda senza essere “quello alla moda”. Ordina un vino prezioso, di cui conosce l’annata e la storia, gioca con lei.
La sera è perfetta, le battute arrivano a tempo, la risata spontanea ed entusiasta.
A casa di lui, più tardi, lei si siede sul divano bianco e acciaio, lineare; lui le siede accanto. La guarda e le accarezza una guancia, la mano le scivola sul collo. La bacia attirandola a sé, il sapore dolce delle loro salive si fonde. Quando il vestito scivola via, scopre una lingerie perfetta, lui apre la camicia e ha un petto ampio, profumato, su cui lei può allargare la mano, con le unghie laccate che non lo graffieranno mai, come se fossero state limate dal vento.
I loro gesti sono sincronizzati e armonici, rispetto alla musica che suona, rara e preziosa, alla luce dorata che rende morbide le loro ombre.
E lui pensa agli occhi di lei che lo guardano, pieni di ammirazione e desiderio. Lei pensa alle mani di lui che l’accarezzano ebbre di incanto e passione. Entrambi si beano del desiderio che hanno saputo suscitare, come se vedessero se stessi dall’alto, protagonisti di una scena erotica, premiata a Cannes.
Quando tutto finisce, si lasciano andare. Lui le accarezza la schiena bianca e nuda. Lei infila il piede affusolato tra i suoi polpacci sodi e muscolosi.
Lei non sa perché, pensa a una sera d’estate, quando un ragazzo impacciato le aveva preso la mano e le aveva messo tra le dita un fiore giallo. Era un ragazzo non molto alto, che lavorava come operaio nel camping in cui era in vacanza con le sue compagne dell’ultimo anno del liceo, un ragazzo semplice che la guardava senza mai parlare.  Lui l’aveva stretta a sé facendole sentire il suo desiderio. Lei lo aveva spinto via ed era corsa verso le sue amiche. Non lo aveva più visto, ma ogni sera, davanti alla tenda, trovava un fiore giallo.
Nello stesso istante lui pensa alla ragazza con cui faceva i compiti al liceo. Aveva una cotta per lui. Era la prima della classe e lui le dava corda abbastanza per tenerla legata, ma non troppo, perché non si dicesse che la illudeva.
Si erano visti l’ultima volta prima che partisse per l’università. La ricordava ferma davanti a lui, con gli occhi abbassati, i capelli raccolti in una coda.
E non sapeva neanche perché aveva avuto voglia di baciarla. Le aveva sollevato il mento con due dita e aveva incrociato il suo sguardo.
Poi senza dire nulla si era allontanato. L’aveva saluta con un abbraccio fraterno prima di andarsene.
E ora sente che quel bacio non dato, è stato il più bello di tutta la sua vita.

E si addormenteranno vicini, senza abbracciarsi.

giovedì 11 ottobre 2012

Storie di ieri - Nenè


“Vieni a giocare, Nené?”,  “Vin c’ nuj…”, Vieni con noi.
Nenè teneva la rezza, la leggera tenda di tela bianca davanti all’uscio di casa, sollevata con una mano, gli occhi fissi sul gruppo delle compagne senza dire una parola, arrossendo.
“No, non iusc…”. Alla fine riuscì a dire. Non oggi. Rosetta fece spallucce e si allontanò correndo, seguita dalle altre. Solo Teresa rimase un attimo sospesa con la mano protesa davanti a sé in un vano gesto d’offerta.
Nenè scosse il capo sorridendo mesta. “va’, va’...”. Ed anche Teresa alla fine corse via, le calzettine corte bianche sfilavano un passo dietro l’altro in una nebbia di polvere bianca.
Nenè restò a guardarle ancora un attimo pensando che sembravano farfalle, o foglie d’autunno, quando il vento le fa girare.
- Arrivo Ma’ - gridò verso il buio all’interno della casa e rientrò.
Lucia non girò neanche la testa al rumore dei suoi passi. Piegata in due sul forno da pulire le indicò lo straccio. Nené lo prese e silenziosamente riprese a sfregare mattonella dopo mattonella il pavimento logoro.
Era il suo ultimo anno di scuola, lei lo sapeva. Aveva dodici anni e non avrebbe continuato a studiare. I suoi genitori avevano fatto un grande sacrificio a mandarla alle elementari, anche se con due anni di ritardo.
Sapeva leggere e scrivere ora, però, faceva addizioni e sottrazioni su quaderni impeccabili che dopo un po’ di tempo avevano un odore di legume secco.
Le sfuggì una lacrima che asciugò rapida col dorso della mano, come fosse sudore. Poi, con un gesto naturale, posò lo straccio, asciugò le palme delle mani strofinandole con forza sul grembiule che le pendeva sulle cosce e annodò le trecce pesanti dietro la nuca.
Si rivedeva in classe, le ginocchia a malapena contenute nel banco troppo piccolo per lei. Non le importava, anche se dopo un po’ le gambe le facevano male e qualche volta la polvere del gesso la faceva starnutire.
“Comme sei alta”… le dicevano tutti. Più alta di molte maestre, a momenti del direttore della scuola. Gli occhi bassi, Nené si incurvava, si appiattiva, proprio lei che avrebbe voluto sparire dalla faccia della terra, che si sarebbe voluta dissolvere nell’aria se appena qualcuno la guardava, era costretta a svettare come una bandiera in una parata militare.
Sembrava grande, più grande, e si sentiva ridicola quando voleva giocare con le altre bimbe che sovrastava di una testa.
Solo per mammà era piccola. Mammà non era il tipo da carezze o abbracci, ma quando erano sole, e mammà poteva fingere di dormire di fronte al braciere, anche Nenè fingeva di addormentarsi con la testa sulle sue ginocchia. Le dita di mammà, dure e nodose, carezzavano la nuca di Nenè, solo qualche istante, a Nenè bastava.
Ricordava ancora il primo giorno di scuola, c’era una certa mestizia nella classe, il ritratto del re dietro la scrivania del maestro era l’unico addobbo dell’aula, per il resto disadorna. I banchi di legno scuro, robusti, erano ancora adatti a contenerla. A 8 anni era alta solo come una bimba di 11.
Il maestro aveva sollevato lo sguardo dal registro all’improvviso, come se solo allora si fosse accorto della presenza dei bambini. Si era lisciato i baffi ed aveva assunto un’aria austera. Si era poi drizzato sulla sedia e aveva cominciato a parlare in Italiano, cosa che normalmente intimidiva, soprattutto dei bambini così piccoli. “Dunque, adesso chiamerò i vostri nomi, prima il cognome e poi il nome, e voi dovete alzare la mano e dovete dire “presente!” e aveva cominciato l’appello:
“Ammassari Nunzio, Barbati Maria…”
A Nenè sembrava la stessa cantilena del rosario solo che invece dei Santi c’erano i cognomi e invece di “Ora pro nobis”, c’era “presente!”.
“Santamaria Eugenia”… Nenè si guardò intorno, Eugenia era il suo nome, ma Santamaria non era il suo cognome. Suo padre si chiamava Lopriore Nicola.  Le bambine in classe erano solo 10 e nessuna di loro si chiamava Eugenia. Teresa, seduta al banco accanto a lei le sussurrò, “Nenè, sì tu!”. Nenè alzò la mano riluttante. Se avesse avuto il coraggio avrebbe detto al maestro che il cognome era sbagliato, ma disse solo “presente”.
Il maestro continuò, “Quando vi rivolgete a me mi dovete chiamare “Maestro”. Dovrete obbedirmi sempre. Quando siamo in classe io conto più dei vostri genitori. Quando vi assenterete…”
Tutta la scolaresca ascoltava col fiato sospeso. Matteo, in ultima fila aveva quattro dita della mano nel colletto e sembrava si sentisse soffocare, Tonino, si tormentava la crosticina che si era formata sul suo ginocchio giocando al “Cazz cavell sott” il pomeriggio precedente. Al suo turno era saltato con furore con entrambe le mani sulla schiena di Nardino che era stramazzato sotto il peso. Erano finiti entrambi nella polvere, sul pietrisco appuntito.
Nenè restò in silenzio per tutto il resto della mattinata. Mentre il maestro spiegava che cos’era la scuola e quali erano i loro doveri, gli orari, la ricreazione e tutto il resto.
Poi spiegò loro che cosa avrebbero dovuto comprare, i quaderni, i libri, le matite, la carta assorbente. Mise tutto sulla scrivania per farlo guardare ai bambini che non avrebbero saputo come scrivere l’elenco, così come non avrebbero saputo farlo molti dei loro genitori.
La campanella della fine delle lezioni echeggiò stridula nei corridoi. “Ora dai primi banchi mettetevi in fila per due. Andremo insieme verso l’uscita”. I ragazzi si accalcarono intorno alla porta dandosi spallate.
Il maestro ne afferrò due per le spalle e li mise fianco a fianco. E fece lo stesso con tutti gli altri finché non vi fu una doppia fila. I bimbi erano ancora incerti sul da farsi.
Il maestro spazzò la fila con lo sguardo. Poi si mise davanti alla piccola coda dicendo, sussiegoso: “E ora, venite dietro di me”.
Giunti sul piazzale davanti alla scuola il maestro annunciò “ora potete andare”.
Come se delle funi invisibili si fossero spezzate la fila dei ragazzi esplose in varie direzioni, correndo, saltellando, piroettando.
C’erano delle signore che aspettavano fuori, i lunghi vestiti scuri o fiorati, i capelli raccolti in crocchie, in code tese, i bambini in braccio. Qualche sorella maggiore con le gonne già lunghe. E Lucia.
Nenè si avvicinò a Lucia con circospezione, come se il silenzio fosse divenuto ad un tratto un dono fragile e qualunque suono, persino un movimento brusco, avrebbe potuto infrangerlo per sempre.
Si avviarono verso casa, Lucia davanti e Nenè appena un po’ indietro.
“Apparecchia Nenè”.
“Ma’, oggi il maestro ha chiamato tutti per nome e cognome e ci ha fatto dire “presente”.
Lucia continuò ad apparecchiare, stese la tovaglia lisa sul tavolo di legno scuro ed apparecchiò la tavola. Piatti e posate consumati dall’uso, relitti di tempi migliori.
“Ma’… il mio cognome è Lopriore?”
Lucia trattenne il respiro. Non ci aveva pensato. Semplicemente non ci aveva pensato.
“No, non è Lopriore. E’ Santamaria.”
“E’ così che ha detto il maestro. Ha detto Santamaria, ma pensavo che si sbagliava”.
“Non si sbagliava Nenè, mo’ mangia. Stasera quando papà va a letto ti spiego tutto”.
Lucia riuscì soltanto a guardare la minestra di ceci che aveva davanti spostandoli da un bordo all’altro del piatto. A fine pranzo con rabbia buttò via il cibo. Non era una donna di pianto, era una donna di rabbia. Schiacciava il dolore sotto il tallone come Maria il serpente.
La sera cenarono in un silenzio più fitto dell’abituale. Nenè cercava di calmare Francesco che stava piangendo, mentre Nicola piccolo finiva la sua porzione di grano e cipolla con lo sguardo corrucciato.
Alla fine della cena tutti “i maschi” andarono a dormire, Nenè e sua madre rimasero a sparecchiare, spazzare e lavare i piatti con l’acqua dei secchi che veniva dal pozzo.
Quando l’ultimo piatto fu asciugato, Lucia si sedette sulla sedia davanti al braciere e fece cenno a Nenè di avvicinarsi.
“Miettite ddù, qui azzecc a me”. Nenè si sistemò accanto alla madre, in ginocchio, la testa appoggiata alla sua coscia, il viso rivolto verso il braciere rifletteva riverberi purpurei nella stanza buia.
“Dobbiamo parlare piano, perché stanno tutti a dormire” Sussurrò Lucia, “Abitavamo a Farignano con papà, ed io era giovane” non si domandava Nenè perché l’imperfetto, Lucia lo usava alla terza persona singolare anche se parlava di se stessa. D’altronde così facevano quasi tutti.
“Ci eravame sposate da poco, ed io ero uscita incinta, sai che vuol dire Nenè?”
Nenè annuì, la piccola nuca balenò un istante tra le trecce scure.  Nenè lo sapeva, erano nati due fratellini dopo di lei, e quando Mammà era uscita incinta di Francesco lei aveva già 5 anni.
“Era il mio primo figlio Nenè, una figlia. In onore a Sant’Anna la chiamai Anna, la chiamavamo Nenè”.
Lucia continuò il racconto lentamente, sottovoce. 
Era autunno, si avvicinava il freddo, non era importante ricordarlo, eppure lo ricordava. Nenè aveva pochi mesi e una mattina molto presto Lucia era stata attanagliata dalla quiete. Senza svegliare Nicola s’era avvicinata alla culla di Nenè. Tutto era calmo e silenzioso, troppo calmo, troppo silenzioso. Lucia si avvicinò per ascoltare il respiro della creatura rannicchiata. Non c’era il respiro.
Lucia ricordava poco di quello che era seguito. Poi le avevano raccontato, di un grido che aveva graffiato la notte, singhiozzi che terminavano in un lamento.
Lucia non raccontava proprio tutto a Nenè, che teneva davanti a sé con la testa sulle sue ginocchia, il riverbero del braciere che illuminava le ciocche sfuggite alle trecce. Le raccontava l’essenziale, come gocce sottili che faceva trapelare dall’oceano rigonfio delle proprie emozioni. I fatti a Nenè, il dolore per sé.
Era diventata un’ombra accanto alla finestra, Nicola non sapeva che dire. Sfilavano spettri davanti alla sua porta:
“se vi serve qualcosa, basta che lo dite, commara Lucia, basta che lo dite”.
Lucia annuiva, ammantata dal dolore. Il dolore per la morte di un figlio è come un piedistallo altissimo su cui nessuno può salire, tutto è distante.
Due sere dopo, no, non era passato tanto tempo, dalla porta entrò una signora alta e snella. Lucia sollevò lo sguardo e la vide meglio. Era giovane, poteva avere poco più di vent’anni ed era vestita come una signora, aveva pure il cappello.
“Buonasera signora Lucia”, disse d’un fiato, come se temesse di essere interrotta, poi, senz’aspettare risposta, domandò:
“mi posso sedere?”
“sedetevi, prego”, rispose Lucia.
“vi ringrazio, siete molto gentile. Sono Rachele Serani”.
Era la sarta più famosa del paese, Lucia lo sapeva, aveva come clienti solo i ricchi possidenti ma nonostante Nicola, il marito di Lucia,  avesse goduto di una discreta fortuna in passato, Lucia non aveva avuto modo di avere a che fare con lei. La guardava e non capiva.
Rachele fece un respiro profondo e si mise la mano sul petto come per impedire al proprio cuore di sbalzare dalla minuta cassa toracica. Nonostante l’altezza e l’eleganza Rachele dava un’impressione di delicatezza, quasi di gracilità. La carnagione diafana si stendeva sottile sulle ossa del viso, gli occhi azzurri erano come spiritati nel viso smagrito e patito. I capelli raccolti in uno chignon alla base della nuca sembravano essere stati appena scompigliati da un vento leggero.
“So quello che vi è successo, commara Lucia, e per questo mi rivolgo come madre, ad una madre”.
Lucia sobbalzò, nulla della figura seduta sulla sedia di legno di fronte a lei le evocava l’idea di una madre. Rachele proseguì.
“Non ho nemmeno il diritto di parlarvi!”. Rachele si nascose il viso tra le mani, mentre le lacrime trattenute le irrigidivano le spalle e le facevano contrarre il petto.
Rachele aveva conosciuto il figlio del più ricco proprietario terriero del paese, un bel ragazzo abituato agli agi e con molto denaro. Lei si era follemente innamorata e aveva ceduto alla sua proposta di una fuga.
Le cose però si erano rivelate assai più difficili del previsto, i genitori avevano rintracciato i transfughi e avevano minacciato lo sventatello di requisirgli tutti i beni dei quali poteva disporre e di privarlo di ogni futura fortuna se non fosse tornato in sé e abbandonato la donna della quale s’era incapricciato.
A Rachele non rimasero che il rimpianto, il pentimento, ed il frutto di quella passione.
“una bambina signora Lucia, che mi è nata qualche mese fa”.
Rachele prese entrambe le mani di Lucia tra le sue. Negli occhi sbarrati tremava una luce di lacrime.
“Voi avete ancora il latte, vero?”
Istintivamente Lucia si portò le mani al seno. S’era dimenticata del dolore dei seni rigonfi in quello più grande della morte della sua bambina. Annuì, “Sì, ancora lo tengo”.
“Io non ne ho commara Lucia, come vedete, a malapena mi reggo in piedi, ma sono venuta da voi perché siete la nostra sola speranza, mia e di Eugenia.
Vi prego, datele il vostro latte, vi prego, commara Lucia, vi compenserò come meglio potrò. Se voi mi terrete la bambina, io potrò riprendere a lavorare e riprendermi io stessa.”. Dopo una pausa aggiunse, con un filo di fiato “Vi potrebbe portare un poco di consolazione”.
Lucia non la stava quasi ad ascoltare. Aveva ancora le mani appoggiate ai lati di ciascuna mammella. Alle parole “datele il vostro latte” un ondata calda le aveva bagnato il seno e aveva ricordato gli attimi preziosi in cui Nenè si attaccava ai suoi capezzoli e lei quasi distratta chiacchierava con una vicina o pensava a quello che avrebbe preparato per Nicola. Mai però perdeva il senso del miracolo che aveva tra le braccia, del pulsare prezioso delle labbra rosee appena appoggiate al capezzolo che cominciavano a suggere con forza. “Come l’ape il nettare da una rosa”. Così le avevano spiegato una volta quand’era ragazzina.
“Portatemela, signorì. E ora scusate”.
Rachele era scivolata oltre la porta rapida e silenziosa. Forse aveva pianto ancora nella strada, scivolando accanto alle porte semichiuse. Dalle case odore di cena, voci di padri, di bambini e di madri. Un mondo semplice, distante.
La mattina dopo, davanti alla porta si presentò una ragazza giovanissima, le gonne lunghe, i capelli raccolti in una coda di cavallo, gli occhi neri e le guance accese. Stretto a sé aveva un fagotto di stoffa color crema.
“Cerco la signora Lucia. Siete voi?”
“Sì, sono io. Datemi qua”, facilmente sfilò dalle braccia della ragazza il morbido e caldo involucro e la borsa che lo accompagnava.
“Ha detto la signora Rachele che ripasso stasera”.
“Come volete”.
Lucia aveva richiuso la porta ed aveva frugato nel fagottino con l’indice ed il medio. Dai pizzi bianchi era emerso un viso tondo e pallido, un naso puntuto e un labbro superiore leggermente sporgente sulla bocca rosea.
Istintivamente l’aveva attaccata al seno. Dopo l’aveva cullata in silenzio, solo ogni tanto mormorando, “bella, bella della mamma sua, bella...”
La piccola Eugenia era immersa in trine delicate. Le piccole mani si indovinavano affusolate nelle giunture delle dita. Dall’involucro tiepido di levava odore di vaniglia. Eugenia dormiva e Lucia ristette qualche istante con la bimba tra le braccia ascoltandone il respiro leggero. Attraversò quindi la stanza ed andò verso la culla di Nenè. Con le dita Lucia sfiorò il lenzuolo, la coperta ed il piccolo cuscino e depose Eugenia nella culla. Aprì un pochino le trine e le sistemò meglio il bavaglino. Prese una sedia e le si sedette accanto.
Stette così qualche minuto, poi si alzò, prese la borsa che la ragazza aveva portato. Conteneva fasce, pannolini e tutto l’occorrente per cambiare la bambina.
Nella nebbia dei primi giorni a Lucia non parve neanche di occuparsi di una bambina, le pareva piuttosto di giocare con una bambola di pezza essa stessa madre di pezza in una sorta d’implacabile smarrimento.
La ragazza si presentava ogni mattina con i suoi due fardelli e un’aria annoiata. Lucia li raccoglieva e tratteneva a sé fino a poco prima di cena. Nicola volgeva di tanto in tanto uno sguardo ad Eugenia. Talvolta gli capitava anche di sorriderle, per distrazione, e di sentirsene subito dopo colpevole.
Arrivano dei giorni che si imprimono nella memoria a tradimento, come se il tempo vi avesse scavato la propria orma senza intenzione, l’impronta di un cane su di una colata di cemento. Il sole illuminava la tenda di pizzo di un bianco luminescente, il vento faceva rumori piccoli come di pioggia trattenuta.
Lucia spolverava il pianale di legno dai residui della farina. Nuvole bianche impalpabili si sollevavano in piccole volute di fumo. Si appoggiò le mani ai fianchi ed il contatto con le sue proprie ossa la risospinse indietro nel dolore della memoria.
La vita dei bambini, pensò, è fragile. Piccole bare bianche nel vicolo seguite da una scia di silenzio, ne aveva viste tante, come foglie trascinate dai rivoli d’acqua. Le pareva quasi di non aver nascosto abbastanza bene Nenè prima che l’onda luccicante la portasse via.
Si avvicinò alla porta prima ancora di sentire i colpi sull’uscio. Protese le mani, in un gesto ormai consueto, per prendere Eugenia. La piccola spalancò gli occhi e le sorrise cominciando ad agitare le mani.
“Mi riconosce, Nicola”. Fu l’unica frase che Lucia disse a suo marito quella sera. Nicola non rispose nulla e dopo un breve silenzio si mise a raccontare di un cane magro, che l’aveva seguito quasi fino a casa.

“Prendetela commara Lucia, prendetela voi”. Rachele non piangeva questa volta aveva il volto tirato e gli occhi sbarrati di chi aveva già troppo pianto. “Tenetela voi, non me la fate portare alla ‘Ruota’. Non la posso tenere io”. Rachele era di fronte a lei, l’abito grigio stretto in vita e i capelli raccolti in un nastro di seta. “Almeno le potrò stare accanto, potrò vederla. E poi lo so che le volete bene”
Lucia la guardò, una mano poggiata sulla gonna di cotone l’altra che fingeva di sistemare una forcina nella massa dei capelli rossi.
Eugenia alla “Ruota”, pensò, i capelli tagliati cortissimi e la tristezza di quei grembiuli tutti uguali. La fila per andare alla messa ogni mattina in città, le maestre con i nasi affilati ed i vestiti neri con i colletti bianchi ingrigiti dall’uso.
Strinse più forte a sé la bambina che stava allattando. “Ne devo parlare con Nicola”.
“Come volete, commara Lucia, come volete”. Rachele afferrò le mani di Lucia e vi appoggiò sopra le labbra talmente forte da imprimervi un impronta bianca.

Nicola arrivò la sera, aprì la porta, con il fazzoletto si asciugava il sudore dal collo. Lucia si alzò vedendolo entrare e gli si fece incontro.
“Nicola, la bambina, Eugenia, la teniamo noi, la sarta non la può tenere”. Nicola sedette, le gambe divaricate, le mani sulle ginocchia. Dopo un istante riprese ad asciugarsi il sudore sul collo. Lucia proseguì: “come una figlia nostra”
Nicola si alzò, andò verso il catino dell’acqua. Si voltò, dopo un lungo silenzio.
“Lucia, che hai preparato per cena?”
“La rape, Nico’, le rape”. Quindi gli diede le spalle, per andare verso la cucina. La tristezza, stanca, fece scivolare un sorriso.