mercoledì 21 novembre 2012

La Macchina di Marco


- Allora, la mattina andiamo dal cliente, il pomeriggio passo a dare le condoglianze alla famiglia di Marco.
- Va bene.
Ho risposto quasi in automatico, il mio amico, con cui qualche volta lavoro, mi aveva parlato di questo ragazzo con cui aveva lavorato e che era morto a 30 anni, divorato da un cancro in meno di due. Volato via, in meno di quattro mesi.
Ho immaginato che lo avrei aspettato da qualche parte, per non violare troppo l’intimità del dolore della famiglia, magari in un bar, a lavorare con il mio computer.
Ma il mio amico le cose me le dice un pezzo alla volta. Qualche giorno dopo aggiunge, bisogna prendere la macchina aziendale di Marco, quindi andiamo con una macchina sola e torniamo con due.
- Va bene, rispondo di nuovo.
Ma sono un po’ turbata. E non so neanche bene perché.
Così la mattina presto partiamo, parliamo del cliente che andiamo a visitare, glissiamo sull’argomento Marco. La conversazione scivola su mille cose.
E’ a pranzo, seduti a un tavolo vista mare, che gli chiedo come siamo organizzati dopo.
- Ci viene a prendere la sua ragazza dal casello e ci accompagna dai suoi.
Fuori dalla finestra guardo il cielo bianco di nuvole e le onde spumose che la sabbia trasforma in un color caffellatte chiaro.
- Deve essere terribile perdere un figlio.
Mi sento già trascinare nel gorgo dei luoghi comuni.
Non ci sono parole. E’ la perdita più grande. Speriamo non fosse figlio unico. Be’, non perché il dolore sia meno forte, ma perché ti dà una ragione per andare avanti comunque, dopo. Si delega ai figli una parte di sé. Non si dovrebbe fare, ma si fa.
Mi torna in mente lo sguardo di una donna che aveva perso uno dei suoi due figli in un modo terribile. Guardandola negli occhi si sapeva, era chiaro, che una parte di lei era morta. Per sempre. Per sempre.
In macchina il mio amico chiama la ragazza di Marco. Sì, ci vediamo al casello, che macchina hai? D’accordo, a tra poco.
Arriviamo al casello. Lui scende, lei scende. Si salutano. Non ha l’aria distrutta. E’ una ragazza. Ma come me l’aspettavo? Non lo so neanche io. Non scendo dalla macchina, la saluterò dopo. Lei mi guarda fa un cenno con la testa. Io sorrido, sentendomi l’essere più inutile della terra.
Arriviamo a casa dei genitori di Marco. Scendo e saluto la ragazza, lei sorride, io resto un po’ a guardarla, poi sempre sentendomi l’essere più inutile della galassia le do due baci.
Saliamo le scale che portano all’appartamento. Davanti alla porta aperta, una coppia di mezza età, non sono molto alti, anche loro sorridono, e ci dicono di accomodarci.
Appoggio la borsa, mi tolgo il cappotto e la sciarpa domandandomi dove posso appoggiarli. E sento quanto ogni pensiero banale sia un’ancora in un mare che ancora non so che cos’è. Rimango un po’ con la sciarpa ammucchiata davanti a me, tenendola con entrambe le  mani. Poi la faccio scivolare sul divano alle mie spalle.
- Come state? Chiede il mio amico.
Alla mamma sfugge un piccolo pianto, ma sommesso e subito trattenuto, come se il dolore, in qualche modo, non fosse lecito.
Le tre figure composte sono sedute di fronte a noi. Due genitori di un figlio unico, morto in due anni, la sua ragazza. Nessuno di noi piange.
Il mio amico parla di lui, di quanto fosse bravo e apprezzato. Loro parlano della sua agonia ma anche del suo attaccamento al lavoro, del timore che aveva che avrebbe perso il lavoro per colpa della malattia, di quanto quello che faceva lo appassionasse.
Poi la conversazione scivola sui progetti futuri dell’azienda, sulla congiuntura economica. Il mio amico parla dei nuovi programmi per il prossimo anno e loro lo ascoltano tutti interessati. La foto di Marco, appoggiata alle spalle del mio amico, mi sorride. Lo guardo e cerco di conoscerlo. Sento tutto il dolore che le parole non dicono perché lui se ne è andato. Sento tutta la dignità di queste persone che cercano di ricordare senza straziarsi, senza straziarci. E mi sento un’estranea anche se ogni volta che guardo la mamma di Marco mi verrebbe voglia di prenderle le mani, di abbracciarla, di dirle: le do il mio telefono se avesse bisogno… di che?
Si scambiano documenti, coordinate bancarie, codici fiscali, computer, telefonini.
Alla fine sono io a dire: è ora di andare, senza capire se la nostra presenza è un dono o un ingombro. Nel salutarci di nuovo la mamma ha un sussulto. Il papà ci dice, nella macchina c’è un ombrello, glie lo avevo messo io.
Guarderemo tutto, rispondiamo, toglieremo quello che gli apparteneva.
Andiamo a prendere l’auto dalla casa della sua ragazza. Lei guarda in su, verso un appartamento con le luci spente.
- Eravamo andati a vivere lì, prima che lui stesse male. Avevamo fatto i lavori. Marco li aveva seguiti, anche se stava male.
Apriamo l’auto, tiriamo fuori tutto. Poche cose. Nel bagagliaio c’è l’ombrello. Salutiamo con poche frasi di circostanza. Il mio amico ha gli occhi pieni di lacrime. Le parole sono finite.
Entro in auto, metto in moto. L’orologio è ancora sull’ora legale. Un’ora in più.
Il mio viaggio di ritorno è senza musica. Qualche telefonata, per parlare di Marco, con qualche amica. Tutte dicono, è terribile.
Penso ancora alla conversazione tra me e il mio amico mentre andavamo dalla casa dei genitori di Marco a quella della sua ragazza per prendere l’auto.
- Era figlio unico. Dio mio, ora come andranno avanti?
- Non so, speriamo che alla fine di tutto questo troveremo un senso. Marco deve stare in un posto migliore.
Lo diciamo con rabbia, ma senza convinzione. L’incontro con questo dolore è stato come uno tsunami emotivo. Siamo atterriti a guardare le conchiglie che il mare ha lasciato ritirandosi , perché sappiamo che tornerà.
Dopo il viaggio lasciamo l’auto nel parcheggio dell’azienda.
- Non dimenticare niente dentro. Domani va a Napoli.
Annuisco. Sbircio nell’abitacolo vuoto. Non c’è più niente di mio. Neanche di suo. E domani va a Napoli.
Entro nella mia macchina. Di nuovo sola, penso alla sala da pranzo illuminata. La mamma di Marco ci ha comprato i pasticcini alla crema e le paste secche.
- Volete un caffè? Ci dice affabile.
E so che la vita prenderà il sopravvento e questa sarà soltanto una delle tante storie di ieri.
Almeno per me.

lunedì 19 novembre 2012

MANOVRA IMPOSSIBILE



Huker sentiva la testa martellargli, come sempre, dopo un litigio con Sunda. Si chiedeva spesso se sua moglie avesse fatto un corso specifico per imparare a dargli sui nervi o se fosse un talento naturale. Era un dubbio che probabilmente non avrebbe mai risolto. Attivò lo spazio-sensore della navicella. La propaggine traslante anteriore entrò dalla finestra del suo appartamento al trentacinquesimo piano. Soffriva l’altezza, ed era costretto a scegliere sempre piani sotto l’ottantesimo, questo lo obbligava a soffrire tutte le pene della salita dell’uovovettore quando doveva prendere l’aero-robot dall’hyperbox sul tetto del grattacielo.
Almeno l’uovovettore era dotato di dispositivi di stazionamento e riequilibratura che impedivano di sentire il dislivello della salita. I visori tridimensionali erano studiati per persone che soffrivano di vertigini come lui e davano la sensazione di planare lentamente a pochi centimetri dal suolo.
La propaggine traslante s’infilò nella navicella metallica ancorata a un migliaio di metri dal suolo scodellando Huker con dolcezza sul sedile dell’aero-robot Ygar 3600.
Al contatto del corpo di Huker con il sedile, il casco trasmettitore scivolò sulla sua testa e il sedile si incurvò lentamente prendendo la forma che, secondo il dipartimento di medicina interplanetario, era il più opportuno in considerazione della struttura ossea di Huker, dei carichi che stava portando, e del tipo di alimenti che aveva ingerito nelle ore precedenti.
Sullo schermo della consolle, apparve il messaggio di benvenuto, che partiva assieme alla musica di apertura, un motivo popolare in quel momento che Sunda aveva scelto.
Sunda era più portata di lui per la tecnologia, e aveva predisposto lei i settaggi dell’Ygar 3600. Huker si era limitato a richiedere un paio di personalizzazioni, per le quali Sunda aveva commentato, con aria di sufficienza:
- Tutto qui?
Dopo il messaggio di benvenuto era partita la schermata di check up di Ygar 3600. In un tempo quasi impercettibile il veicolo veniva esaminato minuziosamente. In caso fosse stata necessaria la manutenzione, l’auto-robot si sarebbe messo in contatto direttamente con la casa produttrice che avrebbe scelto l’officina utile più vicina.
- Maledizione!
Huker era un uomo d’indole pacifica, la mattinata però era stata carica di eventi spiacevoli e quello che apparve sullo schermo era solo la ciliegina sulla torta.
Manutenzione straordinaria – recarsi su Elios VI per intervento urgente – priorità massima”.
Questo voleva dire diverse cose, una tra tutte: l’intervento sarebbe stato a carico dell’azienda produttrice. Il pensiero non diede a Huker alcun sollievo. Nulla avrebbe impedito il litigio che sarebbe scoppiato tra lui e Sunda. Gli sembrava di sentirla:
- Dovevi venire a prendermi alle otto. Mai che tu faccia una cosa in tempo... Non si può mai fare affidamento su di te!
Al pensiero Huker spinse il pulsante di partenza. Forse non sarebbe dovuto partire, forse sarebbe dovuto rimanere lì a decidere il da farsi, o forse avrebbe dovuto chiamare Sunda dall’infocom per spiegarle la situazione. Ma non ne ebbe il tempo.
L’auto-robot era partito con un guizzo metallico e in pochi secondi aveva percorso centinaia di chilometri spaziali, una distanza enorme. Sapeva già dove dirigersi.
Il sistema di automanutenzione, con i mezzi più moderni, era stato completato da un sistema di navigazione intergalattico sofisticatissimo. I due sistemi interagivano e non appena l’elaboratore principale trasmetteva il segnale di manutenzione, dal navigatore intergalattico partiva la ricerca dell’officina più vicina. Una volta individuata l’officina, il sistema la definiva come destinazione, calcolava il tempo di navigazione, il fabbisogno di energia e le eventuali soste di recupero, il tutto senza che la persona a bordo dovesse fare nulla. O anche, semplicemente, potesse fare nulla.
Huker si rilassò. Era talmente arrabbiato con Sunda, quando era uscito di casa, che non aveva preso con sé nulla per passare il tempo. Normalmente gli piaceva, durante il percorso, fare delle copie di se stesso con il neurosimulatore. Aveva inventato centinaia di possibilità, come sarebbe stato se avesse avuto genitori diversi, se avesse fatto studi diversi, se non avesse sposato Sunda. Era solo un gioco, però, ecco, faceva riflettere. Il neurosimulatore, però, era rimasto a casa, in bagno, accanto alla vasca a ultraluci.
Per distrarsi un po’, chiese al sistema di proiettare il manuale d’uso del Navigatore Interstellare Siderius 5.0. La proiezione partì con un sibilo:
Il sistema di navigazione interstellare Siderius 5.0 è il più avanzato sistema di navigazione inventato per orientarsi nello spazio intergalattico. Siderius 5.0 è dotato delle mappe delle maggiori galassie conosciute, ed è in grado di orientarsi sfruttando lo spettro della luce proveniente da ogni corpo celeste. Siderius 5.0, inoltre, è in grado di calcolare il tempo di rotazione di ciascun corpo celeste, la gravitazione reciproca dei corpi, nonché la probabilità di eventi quali comete, meteore, meteoriti...”
Huker si addormentò. Il manuale tecnico continuò la propria spiegazione, mentre Ygar 3600 stabiliva la propria rotta in base alle informazioni che Siderius 5.0 calcolava incessantemente.

- Che vuol dire?
- Quello che ho detto Reus. Esattamente quello che ho detto.
Reus Fiutre si alzò dalla scrivania fluttuante e si fece scivolare sulla rampa d’appoggio in metallo. Amava il design ardito, amava tutto ciò che era audace.
- E’ scappata?
- Direi di sì. In realtà credo che, a rigore, sia semplicemente andata via. Credo fosse suo diritto. – l’ingegnere capo disse l’ultima frase con voce sommessa. Sapeva quanto Reus fosse restio a negare qualunque diritto al di fuori dal proprio.
- Suo diritto un corno! Lei può andare dove diavolo vuole, ma i progetti? I manuali? I disegni? Sono della Ygar, non può farci quello che vuole, no?
Desker, l’ingegnere capo guardò a lungo il pavimento della stanza sotto i propri piedi, fino ad apprezzare ogni piccola scheggia di cristallo luminescente. Alla fine, alzò la testa per dire, con malcelata mestizia:- Non proprio, Reus...
- Che diamine vuol dire: “non proprio, Reus”? – esplose Reus, tentando di scimmiottare, nell’ultima parte della frase, il tono dolente di Desker.
- Vuol dire che... Quando ha depositato i progetti, l’ha fatto a proprio nome, non a nome dell’Ygar Inc. Sono suoi, e può farne quel che vuole, questo vuol dire.
- Legalmente non possiamo fare nulla?
- Direi proprio di no.
Reus era furioso. Quella piccola... L’aveva detto e l’aveva fatto. Anzi, “quasi” fatto.
Kelen era di una bellezza ammaliante e di una sensualità impareggiabile. Era anche orgogliosa e gelosa. Aveva accettato di rimanere a lavorare alla Ygar dopo l’inizio della loro relazione, ma aveva posto alcune precise condizioni. Non voleva promozioni o favoritismi, desiderava solo poter continuare a lavorare sul progetto Siderius 5.0 da sola e prendere una percentuale su quello che la società avrebbe guadagnato dalle vendite del prodotto.
A Reus era parso un affare d’oro. Kelen Geis era l’ingegnere più brillante della sua società e gli sembrava che le condizioni da lei poste fossero ragionevolissime, persino un po’ futili. Aveva attribuito la richiesta all’orgoglio di Kelen, alla sua ingenuità, unite al fatto di aver perso la testa per lui.
Forse” pensò “non era poi così ingenua”.
Doveva ammettere che aver depositato i progetti a proprio nome era stata una bella mossa e, nel medio termine, avrebbe potuto causare qualche problema.
Una delle ragioni del successo dell’Ygar 3600 era stata l’installazione di serie di Siderius 5.0. Se Kelen avesse venduto l’idea ai concorrenti sarebbe stato un brutto colpo. Ma Reus avrebbe saputo farla ragionare.
Il loro ultimo colloquio si era chiuso in maniera piuttosto spiacevole. Ma si sa, quando una storia finisce, volano parole grosse.
- Io ti rovino! – gli aveva detto Kelen, con freddezza.
All’inizio la cosa lo aveva un po’ spaventato, ma poi si era detto che il massimo che poteva fare era causargli qualche piccola bega legale. I suoi avvocati erano i migliori. L’ingegner Geis avrebbe fatto meglio a mettersi l’anima in pace: se pensava di rovinarlo per così poco, non conosceva le risorse di Reus Fiutre.
- Va pure Desker. Chiama i tuoi ingegneri, voglio un piano per fronteggiare l’emergenza entro domani. Voglio una stima accurata di quanti Ygar 3600 sono stati già prodotti col sistema Siderius e quanti sono ancora in produzione. Voglio inoltre che chiami a rapporto il nostro gruppo tecnico, ho bisogno di sapere che cosa conoscono del sistema e se sono in grado di copiarlo. Voglio poi un rapporto dell’ufficio legale. Voglio sapere se possiamo rivalerci nei confronti di Kelen e, soprattutto, come possiamo continuare ad installare il Siderius ora che lei non è più nella società. Chiaro?
- Chiaro.
Desker uscì dalla stanza con la testa bassa. Conosceva Kelen e l’ammirava. Quella mossa gli sembrava al di sotto delle potenzialità del giovane ingegnere, la donna più bella e più in gamba che avesse mai conosciuto. Sentiva campanelli d’allarme e brividi per tutto il corpo. Dalla cintura a pulsioni digitò il codice d’emergenza. In quell’istante ogni ingegnere dell’Ygar Inc. veniva risucchiato nel tunnel preferenziale in direzione della sala riunioni principale.

Huker si risvegliò di colpo. Aveva una sensazione di panico e non capiva perché. Quando guardò il visore tutto gli fu più chiaro. Sunda lo stava cercando. Rispose alla chiamata.
- Huker?
- Sì, Sunda.
- A che ora pensi di passare?
- Sarò un po’ in ritardo, ho dei problemi con l’auto-robot. Ti chiamo non appena arrivo all’officina.
- Huker...
- Conosci le procedure, non avrei potuto passare a prendere te, prima di passare dall’officina neanche se avessi voluto.
- Non fare troppo tardi. A dopo.
Huker sapeva che non sarebbe servito. Era colpevole agli occhi di Sunda. Era passato un po’ di tempo, in effetti. Huker trovò strano non essere già arrivato a destinazione. L’officina doveva essere lontana, il che era piuttosto insolito.
Gli bastò una rapida occhiata al visore per capire che erano andati ben oltre l’officina, erano andati ben oltre i confini del sistema planetario.
In quel preciso istante, lo Ygar 3600 stava lasciando la galassia.

- Reus...
Reus Fiutre guardò la sua assistente, Osiu, entrare nell’ufficio tramite la porta a strati concentrici. Era un bello spettacolo, Osiu era stata un ottimo acquisto a parte il ruolo che aveva avuto nella faccenda Kelen. Le cosce più conturbanti del pianeta: Reus ne era ormai certo.
- Dimmi.
- Il nostro sistema di controllo riporta qualche problema.
Osiu fece scivolare nel visore un goccio-doc. Il tubo si riempì in un attimo e di fronte a Reus si materializzò il rapporto del sistema centrale.
Reus ebbe bisogno di qualche minuto per comprendere la portata di quello che stava accadendo.
- Che vuol dire?
Osiu era sparita. Aveva previsto la domanda e non avrebbe saputo rispondere: per questo aveva chiamato Desker, che aveva lasciato la riunione degli ingegneri per correre nell’ufficio di Reus. “Kelen... Che donna!”, aveva pensato, leggendo il rapporto.
- Desker, che sta succedendo?
- Non lo so, Reus. Da quello che siamo riusciti a capire, tutti gli Ygar 3600 partiti oggi hanno ricevuto un segnale di manutenzione obbligatoria. Nessuno dei milioni di veicoli partiti ha però mai raggiunto un’officina.
- E dove sono finiti?
- Sembrerebbe fuori dal sistema... e dalla galassia. Fuori da ogni controllo.
Kelen! Quindi era questo. La piccola serpe!
- Io ti rovino!
Reus non rispose. I soccorsi, le assicurazioni, il risarcimento danni, l’immagine. Proprio così: era rovinato
- Se ti serve qualcosa...
Reus rimase immobile.
Desker lasciò l’ufficio. Non sarebbe stato difficile trovare lavoro per un ingegnere della sua esperienza. Certo la reputazione della Ygar Inc. aveva ricevuto un duro colpo, ma lui non aveva mai lavorato sul Siderius 5.0.
Osiu stava portando via le proprie cose.
- Desker, mi dai un passaggio?
Desker la guardò, la bella schiena curva, le cosce ritte sui tacchi. Reus aveva gusto.
- Come no! Andiamo.
Huker non capiva che cosa stesse succedendo, si era avvicinato ad una zona sconosciuta e stava orbitando attorno ad un grosso pianeta. Non riusciva ad impostare alcuna destinazione sul Siderius né a comunicare con nessuno.
Dal visore partì un com-messaggio.
“Gentili signori, ci spiace molto per l’inconveniente, dovuto ad un guasto del sistema di navigazione. E’ impossibile, purtroppo, recuperare le vostre navicelle. Inserite le vostre propaggini traslanti, vi trasporteremo su una nave di soccorso che vi riporterà tutti a casa. Probabilmente saranno necessari più viaggi, ma pensiamo di riuscire a completare il trasporto in tempi ragionevoli. Inserite il vostro codice di priorità per aiutarci a stabilire l’ordine di partenza. Il trasporto inizierà tra cinque minuti. Grazie
Huker inserì il codice più basso. C’erano certamente persone che avevano cose più importanti da fare che andare a prendere Sunda. Si mise in attesa.

- Kelen... – L’ingegnere capo della Gurdan, diretta concorrente della Ygar, guardò la donna con un misto di ammirazione e timore.
- Sì?
- Che facciamo degli Ygar rimasti in orbita intorno al pianeta?
- Distruggiamoli. 

Gli Ygar distrutti furono ridotti in particelle piccolissime che ancora oggi si possono osservare intorno al pianeta, un gigante gassoso alla periferia del sistema planetario di una stella gialla, nota ad alcuni come Sol.
Da lontano sembrano un immenso unico anello.




sabato 17 novembre 2012

Angoli Opposti


Maledetta televisione. La odio. Vorrei che fosse spenta. Vorrei che non ci fosse nessun rumore. Vorrei che fuori piovesse. Vorrei piangere e non posso.
Perché Luca non mi chiama. Non mi chiama. Cazzo non mi chiama. Che stronzo. Che gli costava fermarsi a parlare con me. Tanto sta con Stefania ora, no? E’ felice, no? Quella puttanella. Gli piacciono quelle che gliela danno subito, che non gliela fanno sudare.
E ho preso pure un’insufficienza in matematica perché ieri stavo troppo male e non sono riuscita a studiare. E ora la porta in moto, come prima portava me. Vorrei che si schiantassero. Vorrei che morissero tutti e due anzi, solo lui, anzi solo io.
E mamma che cazzo guarda, che aria da vittima. Avrà di nuovo litigato con Bruno. La solita storia. Ma almeno lei ce l’ha avuta una storia vera con papà, ora ha una bella casa, un bel lavoro, ha me. Ora che vuole? E’ vecchia, non se ne rende conto? Fa ancora la adolescente innamorata. Che ridicola…

Maledetta televisione. Perché non possiamo mai parlare mentre pranziamo? Sempre a coprire il silenzio con questo ronzio triste. Tanto nessuna di noi due la segue. Ha gli occhi gonfi, deve aver pianto. Credo abbia rotto con Luca. Me l’ha detto la mamma di Roberta, perché tanto a me lei non dice mai niente. Le cose le so dagli altri. Non sta mangiando niente. E’ magra ,che le escono le ossa.
Sta soffrendo, ma ha tutta la vita davanti. Si dimenticherà di questa cosa, ci riderà su.
E’ diverso per me. Per me è davvero finita. Se finisce con Bruno chi mi prende? Ho l’età che ho, una figlia. Con tutte le donne più giovani e disinibite che ci sono in giro… Non pensavo di innamorarmi di nuovo, invece è successo.
E Bruno non mi chiama, è sparito. Forse sta con un’altra. E’ tornato con la sua ex, tanto lei è lì che lo aspetta, che non aspetta che un suo cenno. E io resterò sola. Sola.

Una ragazzina e una donna sedute a mangiare allo stesso tavolo. Alla televisione accesa si sovrappone un rumore di forchette e di piatti. Lo sguardo passa dal piatto allo schermo senza mai cercare l’altro sguardo.  
Se solo fossero state più diverse, si sarebbero sentite più vicine.

mercoledì 7 novembre 2012

Inno alla Gioia


Oggi è il primo giorno del resto della mia vita.
Dovrei pensare questo, ma non ci riesco. E’ che da quando è finita ho una sensazione da qualche parte tra la tristezza e il sollievo che staziona tra la pancia e il petto.
Ho scelto una giornata di sole per questo atto finale. Non che sia stata veramente una scelta, piuttosto un caso fortunato. Nei film le scene di addio sono sempre piene di pioggia, di vento, soli che scendono, salgono. Il nostro addio ha come teatro un cielo azzurro che sembra di lacca.
Apro con le mie chiavi che poi lascerò al portinaio, come da tue istruzioni scritte via e-mail. Non vuoi più vedermi, né sentirmi.
- Niente contro di te, è per tutelare me.
- Non capisco.
- Non mi importa che tu capisca. Basta che tu rispetti la mia scelta.
E ora eccomi qui a prendere le mie cose. Le mie ultime cose.
Non che ci si sia lasciati con chissà quale rumore di piatti rotti e urla. Tu fai sempre le cose con precisione chirurgica e senza spargimenti di sangue. Detesti il melodramma.
Raccolgo la mia roba senza fretta. Sei fuori per lavoro tutta la settimana. Apro l’armadio, qualche giacca, i pantaloni. Qualche maglione, appoggiato sui tuoi. Non mi hai mai veramente voluto nella tua vita. Ero un intruso, un provvisorio, nel tuo armadio, come nella tua esistenza.
Guardo i tuoi libri di poesia, accumulati sul tavolo, accanto ai tuoi film preferiti, una pila di drammoni strazianti. All’inizio ho pensato fosse catarsi, poi ho sperato fosse omeopatia, alla fine ho capito che ti piaceva crogiolarti nella mestizia e che le mie intrusioni gioiose ti infastidivano.
Che cosa mi avesse attratto in te non saprei dirlo ora, veramente. La tua cupa bellezza di regina delle nevi, la tua immensa cultura con cui dominavi la scena, il tuo cinismo e la tua ironia o forse il sesso disperato con cui mi incatenavi al tuo letto. Ogni volta come fosse l’ultima volta, mi avevi detto. E una volta sarebbe stato così. Una volta è stato così.
Ho ammucchiato le mie cose in uno scatolone.  Ora mi fermo a guardare la tua casa. Vorrei che mi rimpiangessi, ma so che non lo farai. Sei troppo fiera di te stessa e della tua algida solitudine.
Mi siedo davanti allo specchio e mi immagino che non mi rifletta, non perché sono un vampiro ma perché questa è la casa di un vampiro. La tua casa.
Ricordo il mio tentativo disperato, una sera. Dai, facciamo un gioco, “Inno alla gioia”. Mettiamo il titolo su un foglio e poi scriviamo quello che ci viene.
Avevamo iniziato a scrivere, io febbrilmente, tu pacatamente, come sempre.
Avevo scritto:
Il profumo del pane, il profumo dell’erba bagnata, addormentarmi col naso nei tuoi capelli, scoprire un nuovo bocciolo sul terrazzo, la vittoria dell’Italia ai mondiali, guardare il tramonto dal finestrino di un treno, mangiare l’ultimo pezzo di lasagna…
Poi ci eravamo scambiati i fogli, a me era sfuggito il lampo di sfida nei tuoi occhi scuri.  Avevi scritto:
I no alla gioia. E poi,:
Il ritardo del tram quando piove, i semafori che sono rossi quando vai di fretta, la gente che non capisce quando non la stai più a sentire, i commenti stupidi delle persone in TV,  le cene a casa di tua madre… la lista si chiudeva con “i tuoi giochini del c****”.
E’ strano come a volte si spezzino le cose. Mi avevi oppresso, ferito, ignorato in tanti modi, ma solo quella sera capii quanto fossimo distanti.
Fumo una sigaretta nella tua stanza da letto. So quanto ti urterà e lo faccio con piacere.
E non capirai che è solo per dirti per l’ultima volta “ti amo”.