lunedì 16 luglio 2012

5 minuti dopo


Ada si guardò allo specchio ancora una volta. Poi scrutò nuovamente il display del Pierre Bonnet che Marco le aveva regalato per il suo compleanno. Bello, lineare, preciso.
Marco era in ritardo.
Lo aveva chiamato due volte al cellulare che era risultato spento.
Si stirò ancora una volta il tubino nero sulle gambe abbronzate. Era una giornata di luglio torrida, ma lei era perfetta. Perfetto lo chignon appuntato sulla nuca, perfette le unghie, laccate, perfetti i pochi gioielli metallici e squadrati.
La baby sitter sul divano la osservava di sottecchi, ad Ada parve, con imbarazzo. Era quasi un’ora che Ada era pronta e di Marco non c’era traccia. L’ennesimo ritardo ma, di solito, avvertiva.
Il rumore secco delle chiavi nella serratura la fece voltare di scatto.
Marco apparve sulla soglia, trafelato.
- Scusami, il cellulare si era scaricato, avevo dimenticato il caricabatterie…
- Sbrigati, ci stanno aspettando
- Hai avvisato che siamo in ritardo?
- Certo.
- Devo fare una doccia…
- Una doccia? Ma sai che ora è?
- Ci metto 5 minuti.
Marco era già sparito in bagno.
Ada era rimasta a guardare le chiavi della macchina e il telefonino poggiati sul tavolo. Lo stesso telefonino nel quale più di un anno prima aveva scoperto le prove del tradimento di Marco.
Non gli aveva detto nulla. Ce la faremo, aveva pensato. Lo aveva perdonato, senza dirglielo.
Ma non andava meglio. Lei lo sapeva. Erano sopravvissuti al loro amore, al loro rapporto, al loro matrimonio. O forse no, era il loro matrimonio che era sopravvissuto a loro.
Marco apparve, 5 minuti dopo. Pantaloni leggeri, camicia di lino, capelli bagnati.

Quando furono in macchina Ada lo guardò a lungo.
- Che c’è? Chiese Marco sorridendo.
- Non farlo più.
- Fare che cosa? Da quando...Lei lo interruppe rabbiosa:
- Fai quello che vuoi ma rispettami, rispetta gli appuntamenti, i patti. Il contratto.
Ada non sapeva più che stava dicendo.
L’ultima frase quasi la sputò sul parabrezza.
- Salviamo almeno le apparenze. E' tutto ciò che resta.
Marco accese la radio. Il resto del viaggio lo avrebbero fatto in silenzio.

sabato 7 luglio 2012

GIUDIZIO UNIVERSALE


Nella sala si respirava un’atmosfera tesa. L’ordine del giorno era chiaro, Mebel, impeccabile, aveva organizzato tutto con precisione, come suo solito. La musica celestiale si effondeva assieme all’odore dei gelsomini. Le poltrone affondavano morbide nel pavimento a cirrocumuli. Il tavolino a specchio rifletteva una perfetta riproduzione del sole.
- E’ quasi ora, disse Yeuah, che sapeva sempre tutto e ci teneva a farlo presente ad ogni minima occasione.
Rael e Haziel, che erano rispettivamente addetti al perdono e alla misericordia non riuscivano invece a nascondere il nervosismo.
Tutti abbassarono lo sguardo.
Dio entrò come al solito senza aprire la porta e tuonando.
Nelkel, addetto all’unicità di Dio non riusciva ancora a fare pace con quella che lui chiamava la “fissazione per gli effetti speciali”.
- Tanto lo sanno tutti che è Dio – aveva una volta commentato al massimo dell’esasperazione – non possiamo tutte le volte esagerare... e ora i fiumi di sangue, e ora il mar Rosso spaccato in due. A tutto c’è un limite.
Nitaiah con la sua solita saggezza aveva scosso la testa.
- No, Nelkel, non a Dio.
Tutti sedettero, gli arcangeli stettero un po’ a trafficare con le ali ma alla fine si arresero e infilarono le punte di ciascuna estremità piumata sotto il sedere. Erano riunioni infernali per loro, ma non l’avrebbero mai potuto dire. Solo Dio non sedette, come suo solito preferì aleggiare.
Yeiel, la mano di Dio, dichiarò aperta la seduta e diede lettura all’ordine del giorno. La sua voce risuonava meravigliosa, come quella di tutti gli angeli, ma proprio per questa ragione, in quel raduno non impressionava nessuno.
- L’argomento della presente seduta è la fine del mondo e l’organizzazione del giudizio universale.
Nella sala si levò un brusio, sommesso, angelico, come di flauti carezzati dal vento.
Hamiah, l’angelo della speranza, lanciò un raggio di luce per chiedere la parola.
- Ma non si era detto di aspettare? Non è passato molto dal diluvio e forse l’umanità non ha capito bene...
Un tuono scosse l’aria seguito da un fulmine, ci fu un vortice simile a una tempesta e infine una raggiera di luce azzurra.
Nelkhael sospirò tra le piume.
Yeiel proseguì con decisione:
- Dio ha deciso che non è il caso di continuare, il ritorno sull’investimento è bassissimo e siamo in perdita netta. Gli altri punti all’ordine del giorno sono: gestione del progetto fine del mondo, infine, revisione degli organigrammi celesti.
Azrael, che come al solito si teneva in fondo alla sala, ebbe un brivido. Sapeva perfettamente quello che la revisione degli organigrammi celesti poteva significare per lui, tutti i suoi innumerevoli raggi di luce si misero a tremare per il nervosismo.
- Allora - disse Nitaiah – la prima cosa da decidere e se distruggiamo tutto l’universo o ci limitiamo a una sezione.
Lehiah, sempre clemente, si sentì in dovere di intervenire.
- Direi che non è il caso di farla più grave di quello che è. Limitiamoci alla Terra. Credo che potremmo anche lasciare il sistema solare così come è. E poi... in fondo ci sarebbero le altre specie viventi che non hanno fatto nulla di male. Io credo che potremmo limitarci alla sola umanità.
- Allora possiamo lasciarli fare da soli – sogghignò Azrael – stanno andando benissimo.
Nessuno gli rispose. Tutti conoscevano la posizione delicata di Azrael nella faccenda e, pur simpatizzando con lui, in quel consesso, mentre Dio aleggiava e tutto il resto, non potevano fare altro che tacere.
Yehuiah, che sapeva sempre tutto ci tenne a puntualizzare.
- Si è sempre parlato di fine del mondo e di giudizio universale. Se dovessimo comportarci in modo differente sarebbe poco coerente con la nostra strategia e la nostra vision e ci potrebbe danneggiare molto dal punto di vista dell’immagine.
Vasariah, che era sempre molto attento alla giustizia, si irrigidì.
- A rigore gli uomini, quando parlano di mondo, si riferiscono per lo più alla Terra e quando dicono che una legge è universale intendono dire che si applica all’intera umanità.
- Va bene – tagliò corto Yeiayel, da quelle parti le riunioni sono rapide ed efficienti, diversamente da quello che succede all’Inferno – mettiamo la mozione ai voti.
La votazione durò un frullo d’ali. Tutti gli angeli votarono per limitarsi all’umanità, tutti eccetto Azrael che, come tutti si aspettavano, si astenne.
- Bene, la decisione è messa agli atti.
Dio era restato ad aleggiare tranquillo e non era mai intervenuto nella discussione, segno che la decisione presa gli andava bene. Si poté quindi passare al secondo punto.
- Il secondo punto è il seguente. Riguarda la gestione del progetto.
Hariel, che era il creativo, chiese la parola.
- Vorrei capire una cosa, prima di candidarmi. La fine del mondo viene prima o dopo il giudizio?
Alla domanda di Hariel seguì un lungo silenzio. Era effettivamente una questione che aveva delle enormi conseguenze pratiche e sulla quale nessuno fino adesso era stato chiaro. I vari testi sulla fine del mondo erano restati volutamente ambigui sull’argomento e alcuni autori avevano cercato di distrarre l’attenzione dal punto disseminando qui e lì numeri arcani, bestie e altro.
Vasariah intervenne con la sua solita attenzione all’equità.
- Direi di procedere al giudizio prima della fine del mondo. Questo per varie ragioni, ne cito solo due. La prima è che potrebbe essere, dico potrebbe, che si trovi un tale numero di giusti da rendere superfluo passare alla fase due...
Il fatto che gli angeli non ridono fece sì che a questa dichiarazione di Vasariah non seguisse uno scoppio di ilarità. Ci fu invece un angelico silenzio ed egli poté proseguire.
- In secondo luogo, questo ci consentirebbe di svolgere il giudizio sulla Terra e non dover sfruttare le nostre strutture celesti con un aggravio di spese e un impegno organizzativo, inimmaginabile.
Questa seconda motivazione parve a tutti gli angeli assai ragionevole.
In realtà Chavakhiah, che fra tutti i cherubini, serafini, cori, troni e affini era quello un po’ più incline al riso, cercò di figurarsi come sarebbe potuto essere il giudizio universale fatto sulla Terra. Immaginò stadi gremiti, la 48ma strada di New York, beduini raggiunti nel deserto, donne mentre si facevano botulinare in qualche centro estetico, culturisti in palestra. Ai bambini non pensò, per loro c’era l’ascesa diretta, come prevedeva il regolamento, sarebbe stato tutto molto più semplice.
- Bene, allora di questa fase mi occupo io – disse Hariel che non amava le fasi distruttive dei progetti – se trovassimo qualcuno che si volesse occupare della fase due, cioè della fine dell’umanità...
Tutti gli sguardi si volsero verso Azrael. Azrael era il candidato naturale, ma non si faceva avanti e restava in un angolo senza profferire parola, immobile, le ali cangianti ripiegate sul davanti.
- Beh... – suggerì Vasariah, ci vorrebbe qualcuno con esperienza. Qualcuno che abbia dimestichezza con questo genere di cose.
Alla frase di Vasariah, chiaro invito ad Azrael, seguì l’assoluto silenzio.
Yeiayel intervenne con delicatezza.
- Azrael, credo che Dio avesse in mente te per tutto il progetto. Va bene che Hariel si occupi della prima parte, ma del resto dovresti occuparti tu.
Azrael si levò in piedi. La sua bellezza era tale che gli altri angeli facevano fatica a sostenerne la vista a lungo. Dio non era possibile neanche a loro vederlo e guardarlo, ma Azrael era talmente splendente che si faceva fatica a togliere lo sguardo da lui, allo stesso tempo, era impossibile guardarlo troppo a lungo. Era bello come l’abisso, il vortice e la tempesta. Era l’angelo della morte.
- Se devo occuparmene me ne occuperò.
- Ti sei già occupato di grandi progetti, certo non di questa portata, ma sei l’unico tra noi che può farlo. aggiunse Yeiayel.
- Come intendi organizzarti? – chiese Yeuah, che doveva sempre sapere tutto e cercava di rimanere il meno possibile senza informazioni.
- Me ne occuperò, ho detto. Ma avrò bisogno dell’aiuto di tutti voi.
- Puoi contare su di me – disse Revel, l’angelo soccorritore.
Azrael sorrise. Gli angeli non possono ridere, ma sorridono eccome.
- Grazie Revel, sapevo di poter contare su di te.
Revel e Azrael erano spesso stati in conflitto agli occhi degli uomini. Ma gli angeli vedono le cose in modo diverso. Per gli angeli la morte può essere un modo diverso per andare in aiuto.
- Sarà una cosa dolorosa? chiese Haziel il misericordioso, piuttosto preoccupato.
- Solo se loro lo vorranno.
La risposta di Azrael era enigmatica. Cosa che irritò Yeuah ma divertì Chavakhiah che comprendeva meglio Azrael, essendo la gioia più vicina alla morte di quanto possa esserlo la conoscenza.
- Possiamo ora passare alla revisione degli organigrammi celesti. Ovviamente, con la fine dell’umanità ci sarà una ridistribuzione degli incarichi. E’ possibile che molti di voi siano assegnati ad altri progetti. Naturalmente la riorganizzazione prenderà un po’ di tempo, abbiamo pensato di affidarla a un consulente di provata esperienza...
La sala fu percorsa da un brivido.
- Si tratta come avrete ben capito di Mikael, esperto in riorganizzazioni.
Tutti gli angeli presenti ricordavano l’ultima riorganizzazione del quale si era occupato Mikael. Era stata un disastro che era culminato nello spin-off di Lucifero che aveva fondato l’azienda Inferno che, a quanto se ne poteva sapere, prosperava piuttosto bene, anche grazie a una strategia aggressiva e a un marchio molto più attraente. Nessuno, ovviamente, osò commentare. Gli angeli possono intervenire sui livelli operativi, le strategie, come sempre, sono decise in alto.
Anche sulle varie filiali terrestri c’era da ridire. I franchisor non avevano mai rispettato il contratto, applicando condizioni e prezzi che Dio non aveva mai richiesto, che non erano mai stati in nessun listino e usando strategie commerciali piuttosto dubbie. Dio su questo era sempre stato piuttosto elastico.
- Alla fine tutto sarà sistemato. Pare avesse detto a Yeiayel.
Azrael chiese la parola.
- Troverete il modo di ricollocare anche me?
Il silenzio che seguì fu eloquente, ma Yeiayel si affrettò a dire.
- Azrael, le tue competenze sono molto specialistiche, ma troveremo sicuramente un modo per ricollocarti.
- Bene – aggiunse – la seduta è tolta. Un’ultima cosa: Hariel, ti occupi tu dei questionari di valutazione di fine evento?
- Certamente. Dovrei avere ancora qualche copia di quelli della fine dell’Esodo. Quelli della cacciata dall’Eden sono un po’ datati e poi il campione era ristretto.
- Grazie a tutti. Ci aggiorniamo per una riunione operativa. Vi comunicherò al più presto ora e luogo.

Tutti lasciarono la sala, restò solo Mebahel, l’angelo conservatore. Si guardò attorno e poi abbassò gli occhi al cielo sconsolato:
- Basta poi non voglia ricominciare tutto da capo come al solito!

(Illustrazione di Teresa Guido),


giovedì 5 luglio 2012

L'ultima stanza di Franco


La voce di suo figlio arriva da lontano. Eppure è lì, accanto al letto. La voce è remota, un sussurro. “Non devi avere paura, papà” dice la voce. “E’ solo un passaggio”.
Franco sa che è un passaggio. Ma dove, dove sta andando, vorrebbe sapere. Certo che ha paura. Tutti hanno paura della morte. Ma suo figlio ha conosciuto poco la paura. E chi conosce poco la paura, pensa Franco, non conosce la vita.
Eppure Franco gliene aveva parlato. Vorrebbe chiedergli se lo ricorda. Lo sforzo rende tesa la linea delle sue labbra. Il viso pallido sul cuscino sembra appena animato. Ti ricordi? Vorrebbe dire, prendere il braccio di suo figlio e scuoterlo forte, come non ha mai fatto, non ha tempo per le buone maniere. Era nato che c’era la guerra, non era come adesso. La gente non faceva i cortei per protestare contro le bombe su di un paese di cui non sapeva neanche pronunciare il nome. Ricorda, aveva tre anni. La signora Ninetta aveva mandato suo figlio Tonino alla guerra senza dire nulla, senza sapere perché. Lo aveva salutato sulla soglia con gli occhi asciutti, come una madre spartana, senza rendersene conto. Tonino l’aveva guardata in un silenzio stordito. Franco spiava la scena da dietro le gambe di sua madre che stava immobile sulla soglia. Ricordava ancora l’odore di umido che veniva dalla porta aperta dello scantinato. Lo sguardo di Tonino, per molto tempo, a Franco era parso di rivederlo negli occhi delle teste dei vitelli esposte sui banchi della macelleria del paese. 
Il paese aveva le strade bianche, c’era sempre polvere dappertutto. A settembre l’odore del mosto riempiva le strade. Gli uomini ridevano agli angoli della piazza accanto agli alberi striminziti. I bambini erano mucchi rumorosi che si contraevano e si sparpagliavano come cellule di un cuore pulsante. Le commare sedute fuori dalle porte con le loro gambe gonfie o rinsecchite si lamentavano del tempo, potevano essere nuvole o anni.
Lo aveva fatto studiare, pensa Franco, e suo figlio alle superiori non ci voleva andare. Franco aveva fatto la quinta e poi aveva dovuto mettersi a lavorare. Il figlio del dottore, il figlio del farmacista, il nipote dell’arciprete che erano in classe con lui continuavano ad andare  a scuola. Gli sembrava che gli lanciassero occhiate irridenti.
Da bambino aveva pianto molto, di vergogna e di rabbia, quando aveva dovuto cominciare a mettersi a vendere, ambulante, vestiti e calze nei mercati di paese. Aveva pianto per la paura, tornando a casa di sera, con la bici carica, al buio delle strade che tagliavano i campi. Alla voce delle cicale e dei grilli si mescolavano sussurri sconosciuti nella notte che pullulava di fantasmi senza nome. Passando davanti al cimitero del paese, Franco vedeva ombre muoversi al di là della cancellata, e quando la luce della luna copriva il cielo di un manto appena azzurro, si costringeva a guardare da un’altra parte perché le ombre si facevano più grandi, profonde, minacciose. Franco aveva imparato presto, però, che quando si ha paura piangere è la cosa sbagliata perché le lacrime annebbiano gli occhi.
Gli era stato utile non piangere, fuggendo da un campo di concentramento in Grecia. Ricordava il suo compagno grande e grosso “un colosso!” diceva col suo sorriso scintillante che, invece, si era messo a singhiozzare. “E io lo trascinai via…” diceva.
I figli immaginavano, facendo un collage mentale delle foto degli album di famiglia, racconti della madre, della nonna, il padre magrissimo, tutto nervi e muscoli, trascinare quel compagno stremato fuori dal recinto del campo. “Lo abbracciai e ci separammo”, raccontava e gli occhi verdi, ormai circondati da rughe sottili, gli brillavano di commozione. Aggiungeva dopo una pausa, tra sé e sé, “chissà che fine ha fatto?”. Anche in quell’occasione aveva provato paura. Come un animale braccato era corso nella campagna. Alla luce della luna gli era sembrato di ritrovarsi davanti al cancello del cimitero del paese. Si era appiattito in un fossato che affiancava la strada quando aveva sentito arrivare una camionetta. Tutte le ossa gli facevano male e cominciava a sentire i crampi della fame. Quando la camionetta si era allontanata il campo era diventato silenzioso. Nella penombra le orme contorte degli olivi, ondeggiavano. Quando trovò la forza di muoversi, strisciando lentamente, ogni movimento pareva echeggiasse per miglia in lontananza. Era quasi l’alba quando arrivò alla casa, tutti dormivano, ne poteva sentire il respiro. Con la mano cercò la pistola che era riuscito a rubare prima di fuggire e provò ad estrarla. Era abbastanza facile, un movimento rapido. Si avvicinò alla porta e tentò di forzarla senza fare rumore. La porta si aprì con una specie di lamento. Non c’era nessuno, un tavolo di legno e quattro sedie al centro della stanza. Su di un mobile appoggiato alla parete un brocca piena d’acqua. Aveva la bocca secca. Afferrò la brocca e bevve d’un fiato. Sentì dei passi rapidi dietro la porta e tirò fuori l’arma prima di appiattirsi contro la parete. Era un bambino, poteva avere quattro anni. Si voltò verso di lui e lo guardò con stupore. Franco gli fece cenno di non fare rumore. Il bambino aveva l’aria seria, compunta. Si avvicinò al mobile addossato alla parete e lo aprì, tirò fuori una  pagnotta piatta e larga e gliela porse. Franco la prese, il sorriso gli costava fatica. Poi si girò verso la porta e uscì nella luce del mattino.
Non era stato sempre così facile. Aveva rubato le uova dai pollai, il cibo dalle ciotole dei cani. Qualche volta era riuscito a dormire in un letto e a lavarsi, circondato da ospiti silenziosi. Non riusciva a capire i loro pensieri. Gli piaceva immaginare che, in qualche modo, gli fossero grati di essere italiano. Si era chiesto se dietro la facciata della gratitudine non si nascondesse la paura per il suo viso scavato e la sua pistola. Prima di addormentarsi sentiva ancora la tensione in tutto il corpo, ogni rumore lo riempiva di inquietudine. Si ripeteva che il nemico era comune e confortato da questo pensiero riusciva a scivolare nel sonno.
Sulla nave che lo aveva riportato a casa aveva impresso nei propri occhi ogni sguardo che aveva incontrato, in ognuno aveva trovato, senza neanche cercarlo, un’immagine familiare. Il suo era rivolto alla terra che stava lasciando e non a quella in cui stava tornando. Pensò ad Ulisse e alle sirene.
Adesso, accanto al suo letto, suo figlio Domenico sussurra “E’ solo un passaggio”. E che ne sai tu, vorrebbe dirgli ancora, se solo ce la facesse. Gli fa rabbia essere immobile, la voce che non esce. Vorrebbe chiedergli che cosa ha capito di lui, dell’uomo che è suo padre, che cosa ha capito di se stesso. Se ha trovato le risposte alle domande che faceva quando era piccolo. Franco gli chiedeva che voleva fare da grande e Domenico rispondeva “il dottore”. E neanche allora Franco capiva. Gli sarebbe piaciuto che a otto anni ancora rispondesse che voleva diventare pilota di aerei, musicista, pittore. Domenico aveva gli occhi calmi e lo guardava perplesso. Da appena nato, già era perplesso, sapeva sempre perché le cose non si dovevano fare. Domenico aveva vissuto per esclusione.
Franco è colpito di nuovo da un ricordo, da un’immagine: dopo la guerra era come se tutti avessero davanti agli occhi una tela bianca. Quando era potuto tornare in Italia, come un uomo libero ed era rientrato al paese, ancora più magro, ancora più selvatico, aveva guardato le strade piene di sole e aveva pensato che nulla era più bello che poter usare di nuovo tutti i sensi. Voleva fare l’amore, fare l’amore subito. Voleva una donna bella da baciare e da toccare, che odorasse di terra e di acqua. Una donna col profumo nei capelli. E fu allora che vide lei. Profumava di primavera ma era fatta di spighe mature. “Come sei cresciuta” le disse. La ricordava una bambina, con le calze di cotone. Lei aveva sollevato un attimo gli occhi azzurri e li aveva riabbassati in fretta arrossendo. “Siete tornato”, gli aveva detto in un soffio. Aveva sorriso lievemente e le labbra carnose avevano scoperto i suoi denti appena irregolari. Lui aveva proteso la mano per toccarla.  Lei si era ritratta con un sussulto, stupita, spaventata. Dallo stomaco viene l’amore, pensò Franco. Non è che ci avesse ragionato sopra.
“Non è per te” gli aveva detto sua madre, con durezza, “Ma tanto sei capatosta e non cambi idea manco se ti uccidono”. Franco era innamorato, certamente a modo suo, ma follemente. Lei era davvero bella e aveva un nome da principessa. Aurora. Lui le raccontava le sue storie e lei rideva divertita. Nessuna era come lei. Le strade si fermavano quando lei camminava. Sembrava che anche il vento trattenesse il respiro.
E’ ancora innamorato Franco, nel letto d’ospedale, con il figlio accanto. E quando si è innamorati non si può non aver paura di andare via, non si può non avere il desiderio di restare. Ma tu che ne sai. Gli vorrebbe dire. Eppure vorrebbe che Domenico sapesse: era stato mai innamorato lui? Domenico aveva sposato la donna giusta, la sua strada era dritta come il binario di un tram. Si fosse affacciato un attimo dal finestrino anche solo per salutare, un momento. E invece, Franco lo vedeva dai suoi occhi che suo figlio pensava che fosse un pazzo invecchiato senza essere cresciuto. Qualche volta gli aveva concesso compassione, mai comprensione.
Franco ci è nato con la paura e ci è cresciuto, aveva vissuto a testa bassa. Quando aveva perso il lavoro, neanche il tempo di bestemmiare, era andato avanti. Quando sua figlia era rimasta incinta a diciannove anni l’aveva guardata con tenerezza, allibito dalla paura che vedeva nei suoi occhi. Non sapeva che dire, aveva solo fretta che finisse il silenzio. Per cui ne era venuta fuori una carezza goffa e una frase farfugliata.
Si accorge adesso che ha vissuto di corsa. Solo qualche volta l’impotenza e la disperazione gli hanno lasciato tempo. La paura gli aveva sempre messo fretta.
Sente la mano di suo figlio Domenico posarsi sulla sua. Hai sete papà? Chiede. Ha la voce rotta dal pianto. Allora me ne sto proprio andando, pensa Franco. Non piangere Domenico, vorrebbe dirgli. Franco, davanti agli altri, non aveva mai pianto. Il silenzio ora è assoluto.
Vorrebbe dire a suo figlio che ha paura, è vero. Vorrebbe dirgli che ha paura di morire ma che se ci pensa bene, più che paura, è rabbia che sia già tutto finito. E non gli basta ancora. Crede che non sarebbe bastato mai. E’ che Franco ha un’avidità della vita che suo figlio non conosce, vuole mangiare ancora, bere ancora, sentire ancora il caldo dell’estate, l’odore dell’inverno sulla pelle della gente, quando la gente rientra, che ha un odore frizzante, quando fuori fa proprio freddo. Invece in questo momento Franco ha più paura per Domenico, di non lasciargli niente. No, non i soldi, di quelli suo figlio non ha bisogno. E’ che sente che Domenico si è arreso e allora vuol dire che non gli ha lasciato niente. Se potesse lasciargli la fame di vita che è tutta sua e che invece si porta via con sé… Franco ha paura di morire e suo figlio resta, con la sua paura di vivere. Gli potesse regalare questo con la sua morte, il senso di quello che resta.

“Non avere paura papà, è un passaggio”, continua a dire Domenico. La voce gli trema. Si alza dalla sedia accanto al letto per andare a fumare una sigaretta in corridoio. Si avvicina ad una finestra aperta e guarda fuori alla luce della fine dell’estate, alla luce calda dorata dei tramonti di settembre. Il fumo della sigaretta annebbia l’immagine o forse sta ancora piangendo. Gli pare di non avere mai smesso e non ricorda più quando ha cominciato. Suo padre gli manca. Non perché stia morendo. E’ come se suo padre gli fosse sempre mancato dentro. Perché? D’un tratto capisce che suo padre non ha chiesto mai perché, ha vissuto e basta.
Domenico guarda il tramonto, ogni tanto si asciuga gli occhiali.