L’avevano vista tutti. Tina si reggeva a malapena in piedi. Si guardò, per un istante, le mani sporche di sangue. Stringeva ancora il coltello col quale aveva colpito (quante coltellate: quattro, dieci, cento?) con inaudita violenza l’uomo che tutti avevano visto chino su di lei per picchiarla, darle pugni. Massacrarla.
Tutti la conoscevano, tutti sapevano di lei all’ospedale dove si era
ricoverata un paio di volte, “dopo essere caduta dalle scale”, e al cui pronto
soccorso le infermiere la chiamavano per nome; alla stazione dei carabinieri di
fronte alla quale aveva spesso sostato, livida, con gli occhi pesti, senza
avere il coraggio di entrare.
Tutti conoscevano Tina Lonigro, venticinque anni, quattro di
matrimonio assieme ad un uomo brutale e violento. Le donne del quartiere
l’additavano compassionevoli.
Tutti sapevano, tutti avevano assistito.
Per questo l’avrebbero assolta.
Solo sei anni prima, un’eternità, Tina aveva conosciuto Francesco. Il
sogno di ogni ragazza. Il più bello del paese, ventidue anni, la macchina sportiva ultimo modello, un futuro brillante,
studiava da avvocato. I suoi occhi scuri trafiggevano, e le donne del paese si
sentivano mancare al suo sguardo ironico e scanzonato. Francesco si era accorto
di lei e a Tina non era sembrato possibile: era un sogno, lei così
insignificante.
Tina insignificante non lo era per niente, alta bruna e slanciata,
suscitava rigurgiti ormonali finanche nei più imperturbabili. Persino Don
Antonio, il parroco del paese, misogino e ricurvo per l’età, per gli studi e
per tutte le volte che si era dovuto piegare in preda ai crampi per sedare
l’autoerotismo, si segnava al passaggio di Tina. Una donna così sanguigna,
incarnazione del demonio era.
Francesco le era stato presentato ad una festa da Filippo, un amico
innamorato di lei da tempo immemorabile. Francesco si era subito appartato con
lei, senza neanche una scusa, e aveva cominciato a parlarle a mezza bocca
sussurrandole frasi di poco senso che erano esattamente ciò che Tina, che era
innamorata di lui da sempre, voleva sentire.
Innamorata da sempre, non era un modo di dire, c’è un archetipo nel
cuore di ogni donna, serbato gelosamente, una custodia di senso e emozione, uno
scrigno che attende di essere riempito, una forma pronta al gesso caldo di un
sembiante. Per Tina era Francesco.
Era cresciuta in un ambiente volgare, tra l’odore aspro della gazzetta
dello sport, il lezzo pungente delle pagine rosa e nere, appena stampate e
della cenere delle sigarette spente nei piattini; con dinanzi agli occhi
l’ombra lattiginosa dei residui dei boccali di birra nel bar paterno.
Francesco era, ai suoi occhi, l’antitesi del mare di fango dal quale
voleva evolversi, lei, anfibio grigiastro a guadagnare la luce e la terraferma.
Le unghie curate, il sorriso dei denti bianchissimi: Francesco non aveva
proferito una sola parola in dialetto. La sua cadenza era dolce, e sapeva
canticchiare le parole della canzone inglese in sottofondo. Ogni tanto
sottolineava una frase col tono, guardandola fisso negli occhi.
Stavano insieme solo da qualche mese ma Tina sapeva, sentiva, che
sarebbe stato per sempre. Francesco nel giro di un anno, un anno e mezzo si
sarebbe laureato poi, il tempo del praticantato e avrebbe cominciato a lavorare
nello studio del padre. A quel punto si sarebbero sposati, all’inizio avrebbero
fatto un po’ di sacrifici, ma poi lei sarebbe stata la moglie del famoso
avvocato De Nicola.
Francesco era stato il primo per lei, doveva restare l’unico.
Sua cugina Marina era andata a trovarla un sabato pomeriggio del mese
di giugno. Era una giornata precocemente torrida. Tina era seduta sul balcone
di casa a prendere il sole, sorseggiando una limonata. Il sapore dello zucchero le solleticava la lingua. Marina
parlava, quasi senza prendere fiato, gli occhi illuminati, i capelli biondi,
tirati indietro da un groviglio informe di fermagli, il rossetto scuro
sottolineava i movimenti a scatto delle labbra.
- Insomma... non ti dico bugie... pari pari! Lei mi ha detto che avrei
passato l’esame di Scienze, ma per quello di Fisica avrei dovuto aspettare il
mese di maggio: così è stato! E questo è niente... mi ha detto che mi sarei
fidanzata non con un ragazzo del paese
ma con uno di fuori, di ventiquattr’anni col nome che comincia per “Gi”. Beh...
non ti dico bugie, dopo due mesi, che manco mi ricordavo più, a momenti... ho
conosciuto Giuseppe che, come sai, è di Formia e ci siamo fidanzati... E’ da
brivido questa!
Tina spalancò gli occhi, curiosa era curiosa, e poi chissà, lei non si
era mai sentita troppo sicura dell’amore di Francesco. Era troppo bello per
essere vero, per essere capitato proprio a lei. Poi Marina non era una stupida,
tra le sue cugine era l’unica che frequentasse l’Università. Era sempre stata
la prima a scuola, quella con i voti più alti. Ora andava spedita, e per giunta
ad una facoltà scientifica. Certo, l’esame di Fisica le era andato male. Un
errore capita a tutti.
- Dai, ti ci porto! Ci andiamo
venerdì. Sarà il mio regalo di compleanno. Lo vedo che ci vuoi venire...
Aveva riso Tina. Ma aveva accettato. Non sapeva che quel pomeriggio di
giugno, un pomeriggio odoroso di asfalto bagnato dalla pioggia estiva, avrebbe
segnato il resto della sua vita.
Ilejana era un’Armena di circa quarant’anni. I suoi lineamenti erano marcati ed intensi, le sopracciglia scure, due archetti morbidamente convergenti alla radice del suo naso, un naso affilato che spuntava ad ombreggiare labbra colorate di rossetto carminio.
Da lei si propagava una fragranza intensa ed improbabile, un miscuglio
di cedro e citronella che adombrava memorie remote d’insetticidi e di barbieri
all’orario di chiusura.
Tina entrò seguendo Marina che sgusciava nel soggiorno di Ilejana
sfoderando una familiarità quasi sfacciata. Si rivolse quindi alla donna
dandole del tu, cosa che a Tina, che quasi tremava, diede un senso immotivato
di gravità.
- Questa è Tina, mi raccomando dille cose belle che se no mi si
spaventa...
Marina scoppiò a ridere. Tina la fulminò con lo sguardo.
Ilejana porse a Tina una tazza larga colma di un liquido scuro, quasi melmoso.
- E’ già zuccherato - disse la donna porgendole la tazza fumante.
- E’ caffè turco - Spiegò Marina con fare saccente.
La donna riprese, guardando Tina fissa negli occhi, inchiodandola con
le proprie pupille quasi confuse nell’iride scurissima:
- Lo devi bere, pensando bene a quello che vuoi, lascia appena un
fondo. Poi devi rovesciare la tazza sul piattino. Al resto ci penso io.
Quindi, rivolta a Marina, soggiunse:
- Tu devi uscire
Marina sembrò stupita e seccata, ma il tono perentorio le tolse ogni
velleità di reazione. Uscì rapidamente dalla stanza.
Tina sorseggiò il liquido dal sapore sgradevole. I grani di caffè non
filtrato le graffiavano la gola. Sorseggiò il liquido fino a quando la densità
non divenne insopportabile e poi poggiò la tazza rovesciata sul piattino.
Per tutto il tempo aveva pensato solo a Francesco, al loro matrimonio,
a se stessa sull’altare col proprio abito bianco, il velo poggiato sui capelli
raccolti in un intreccio di fiori, al loro primo bambino...
La fantasticheria in cui Tina si era persa svanì, interrotta dalla
voce di Ilejana, arrochita da cento sigarette, con un accento ombroso, accento
dell’Est, che così spesso Tina aveva ascoltato al telegiornale.
- Nella tua vita vedo un Cancro e un Leone, questi sono buoni per te e
ti fanno del bene.
Tina spalancò gli occhi: suo padre era del Cancro e sua madre del
Leone. Entrambi l’adoravano.
- C’è stato un uomo nel tuo passato. Non è buono per te. Uno della
Vergine che comincia per “C”. Hai fatto bene a lasciarlo. Ora va tutto bene,
quel problema di salute che hai avuto non si presenterà più, tutto a posto.
Però, figlia mia, qui ci sta una cosa grossa... una cosa brutta.
Tina trattenne il respiro tutto quello che la donna aveva detto fino a
quel punto era vero. Neanche Marina sapeva di Carlo, amico di famiglia, il
commercialista del padre, della Vergine, che aveva preso a corteggiarla e che
lei, dopo un’iniziale disponibilità, aveva respinto.
Tina, per di più, aveva sofferto a lungo di un fastidioso problema
intestinale, che da un po’, effettivamente, non le dava più fastidio.
Infine, nella sua vita era ormai entrato Francesco.
- Ora, da poco, ci sta un uomo dello Scorpione, uno che ti piace
veramente e che comincia per “F” - Ilejana fece una pausa - Tu ti sposerai,
come tu sogni: ma tuo marito morirà, poco dopo le nozze. Così è scritto, non ci
puoi fare niente.
Ilejana guardava nella tazza; le ciglia, irrigidite di mascara
nerissimo, sembravano aghi acuminati. Non un’esitazione tradita dalla voce, non
un attimo d’incertezza.
- Come?
- Hai capito bene, bella mia. L’uomo che sposerai morirà. E senza neanche farci un figlio. Così èscritto. Dipende dal karma. Sai che cosa è il karma? E’ il destino ineluttabile, ciò che siamo chiamati ad apprendere in questa vita, e tu sei stata fatta bella per attrarre l’uomo che vuoi, e il destino vuole che tu provi l’atroce dolore della sua perdita.
Tina si alzò di scatto, le labbra le tremavano.
- Basta! Non ho più voglia di sentire queste stupidaggini! Quanto le
devo?
Ilejana sorrise mestamente, lo sguardo grave.
- Mi dispiace assai. Da te non voglio niente.
All’uscita aveva strattonato per un braccio sua cugina che l’aveva
guardata come se fosse uscita di senno e insieme si erano dirette verso la
macchina, parcheggiata in uno spiazzo, poco distante. La pioggia cadeva
sottile. Tina, meccanicamente, si asciugava il viso con le punte delle dita.
Durante il tragitto per il ritorno non aveva detto una sola parola.
Era rimasta immobile sul sedile del passeggero stringendo la cintura di
sicurezza, che le serrava il petto, con entrambe le mani.
Marina aveva cercato in tutti i modi di capire che cosa fosse
successo, Tina si era chiusa in un mutismo impenetrabile. La sera non aveva
cenato. Si era fatta negare a Francesco che le aveva telefonato, non aveva
voglia di parlare con nessuno, men che meno con lui.
Era andata a letto presto, prestissimo, ed era rimasta immobile sotto
le coperte a guardare il soffitto.
Il pensiero che Francesco, diventato suo marito, potesse morire la
riempiva di un dolore assoluto. Le sembrava che volessero strapparle un
braccio, il cuore, il fegato, le sembrava che volessero toglierle una parte di
sé.
Ma soprattutto, la terrorizzava un’idea: se qualunque uomo avesse
sposato era destinato a morire, lei sarebbe stata un’assassina. Perché lei
sapeva.
Tina immaginava la propria vita in solitudine, si vedeva uguale a
tutte le zitelle che conosceva, sospese, per sempre, in un vortice di non
esistenza. Vedeva se stessa passare il resto della propria vita dietro il
bancone del bar di fronte al municipio, lasciar sfiorire la propria gioventù e
avvenenza, ridotta a cercare l’attenzione degli autotrasportatori di passaggio.
Ruppe in un pianto disperato.
Da quella sera, si fece sempre negare a Francesco. Il farlo la lacerava ma le sembrava, ormai, l’unica possibilità. L’unico modo per salvare Francesco e quindi se stessa.Era ridotta ad una larva, non riusciva quasi più a mangiare ed era perseguitata dall’insonnia. Al risveglio dalle poche ore che riusciva a dormire, le sembrava sempre di aver sognato la morte di Francesco, anche se non riusciva a ricordarlo. Ma Francesco non si dava pace.
Fu per questo che Tina ricominciò a dar corda a Carlo.
Carlo era amico di famiglia, da qualche tempo il commercialista di
suo padre, un uomo piacente e benestante,
che aveva dieci anni più di lei. Per un certo periodo Tina aveva trovato
gradevoli le sue attenzioni. Dopo aver conosciuto Francesco, però, la presenza
di Carlo le risultava quasi fastidiosa, insopportabile.
Date le circostanze, le sembrò che la cosa migliore per far mettere l’anima in pace a
Francesco fosse fidanzarsi con Carlo.
Carlo, rispetto a Tina era un uomo navigato e vissuto, ma Tina aveva
un asso nella manica: non era innamorata di lui.
Una donna non innamorata può far fare ciò che vuole all’uomo che la
desidera. Una donna non innamorata è un essere pericolosamente consapevole del
proprio potere.
Carlo era completamente soggiogato da quella ragazzina bizzosa che
cambiava idea, apparentemente, nel verso in cui girava il vento, che lo voleva
accanto a sé un minuto ed il minuto successivo non voleva neanche sentire la
sua voce. Un uomo a cui la donna che desidera non dà neanche un punto di
riferimento è un uomo perso.
Tina cominciò ad odiare Carlo: fu una sequela di eventi indistinti e impercettibili.
L’odio si era
sedimentato dentro di lei come i sali di calcio in una
stalagmite, impercettibilmente, giorno dopo giorno.
Quando Carlo le chiese di sposarlo provò un sentimento simile al
trionfo del cacciatore che vede cascare nella trappola la preda facile,
cacciata esclusivamente per diletto, anzi, per noia.
La sera in cui Carlo, con la voce rotta dall’emozione, e arrossendo,
con l’aria buffa di un bambino timido, che recita in piedi, sulla sedia del soggiorno, la poesia di
Natale, le aveva proposto di diventare sua moglie, era tornata a casa dal
ristorante assaporando un trionfo cinico, senza allegria.
Gli avrebbe detto di no, certo, lo avrebbe umiliato, lo avrebbe fatto
sentire l’ultimo dei vermi. Sarebbe morto dall’umiliazione. Sarebbe morto...
sarebbe morto...
E se fosse morto? Se Carlo fosse morto dopo il matrimonio? Lei sarebbe
stata libera, avrebbe potuto cominciare una nuova vita, avrebbe potuto
riprendersi Francesco. Certo, sarebbe stato difficile all’inizio farsi
perdonare, ma poi lui avrebbe capito lei gli avrebbe spiegato, lui le avrebbe
creduto.
In fondo non faceva nulla di male. Tina cominciò a mentire a se
stessa, come la maggioranza degli esseri umani quando decidono di fare cose
immorali. Era Carlo che insisteva a volerla sposare. In fondo avrebbe avuto ciò
che voleva, lui sapeva che lei non lo amava. Sarebbe stato felice, avrebbe
ottenuto quello che voleva, ogni cosa ha il suo prezzo, no? E se Ilejana si
fosse sbagliata? In fondo tra i due, era lei quella che ci perdeva di più. Era
tutto basato su di una macchia sul fondo di una tazza di caffè. Una probabilità
magari remota.
Tina non avrebbe mai potuto rischiare di essere la causa, seppur
indiretta, della morte di Francesco. Ma con Carlo era un’altra cosa. L’avrebbe
sposato e se poi la predizione si fosse avverata, bene (Tina ebbe, suo malgrado
un brivido) se non si fosse avverata... pazienza, avrebbe divorziato e sarebbe
stata libera a quel punto, comunque.
Per la prima volta, dopo mesi, dormì serenamente. Il giorno dopo disse
di sì a Carlo ed annunciò al resto della famiglia che lo avrebbe sposato la
domenica successiva, durante il pranzo.
Il padre era entusiasta, sua madre la guardò intensamente e non disse
nulla. Nel pomeriggio si affacciò nella stanza di sua figlia che leggeva una rivista, sdraiata sul letto.
- Tu hai qualcosa in testa – le disse - Non so che cos’è ma so che non
mi piace. Ami ancora Francesco e per te Carlo non è nessuno. Che vuoi fare?
- Ma che dici mamma? Sono felice e basta. Carlo è l’uomo giusto per il
matrimonio.
Tina rispose continuando a tenere gli occhi sulla rivista mentre
cercava di controllare il tremito delle mani. Non aveva mentito.
Il matrimonio fu semplice e organizzato rapidamente: entrambi gli
sposi lo desideravano. Tina aveva scelto un appartamento non lontano dallo
studio del padre di Francesco. Non si poteva mai sapere, un domani...
Dopo il matrimonio, la donna che Carlo si trovò accanto non era
affatto differente da quella che aveva visto durante la loro lunga
frequentazione e breve fidanzamento.
Una giovane moglie bella e sensuale, dai modi cortesi, che si
trasformava in una statua di ghiaccio quando lui le si avvicinava per toccarla,
abbracciarla o baciarla. Questo esasperava il desiderio di Carlo che si era,
col tempo, abituato a fare sesso con un manichino morbido e consenziente.
Tina faceva la moglie e aspettava. All’inizio sobbalzava ogni volta
allo squillo del telefono e rispondeva trepida, pensando che sarebbe stata la
volta buona.
Poi, piano piano la sua speranza si era affievolita. Il tempo passava.
Passava le giornate in casa, o dal parrucchiere e dall’estetista,
voleva essere bella per Francesco, voleva renderle impossibile resisterle
quando lei si fosse presentata a lui.
Dopo due anni di matrimonio la presenza di Carlo era diventata quasi
esasperante, le dava fastidio tutto di lui, dalla maniera in cui si allacciava
le scarpe la mattina, al dopobarba che usava. Trovava intollerabile il modo in cui lui si portava il cibo alla bocca
e il gesto col quale usava la salvietta per pulirsi le labbra.
Era disgustata dal trovare l’asse del water sollevato quando lui
usciva dal bagno e le strisce del dentifricio nel lavabo dopo che si era lavato
i denti.
Dopo due anni e mezzo di matrimonio scoprì di essere rimasta incinta.
All’inizio aveva sperato in un banale ritardo, ma poi si era accorta con orrore
che si trattava di una gravidanza.
Quando si era accorta delle due barrette rivelatrici, sull’asticella
del test, era stata presa da un attacco isterico, aveva cominciato ad urlare, graffiarsi e darsi pugni sulla pancia.
Ricordava bene le parole di Ilejana:
“L’uomo che sposerai morirà. E
senza neanche farci un figlio”. E
ora, questa gravidanza. Pensò al figlio che portava dentro di sé: figlio suo e
di Carlo. Le parve una mostruosità, che dei mostri alieni l’avessero invasa e
la stessero divorando dall’interno.
Raccontò a Carlo che doveva andare a trovare Marina, per qualche
giorno. A Marina chiese di reggerle il gioco, le disse che voleva fare una
piccola plastica al seno e che non voleva che Carlo ne sapesse nulla.
L’interruzione di gravidanza non fu difficile, era una donna molto
giovane e si riprese in fretta. Al ritorno
a casa trovò Carlo ad aspettarla inquieto.
- Dove sei stata?
- Da Marina, te l’ho detto.
- Stai mentendo
- Non mento, lo sai.
Carlo la vide bellissima, altera e pallida. Sua moglie, davanti a lui,
come nel suo letto tutte le notti: intima e irraggiungibile.
La prese per un polso e la colpì in pieno viso con uno schiaffo. Tina
vacillò sotto il colpo ma non disse nulla, girò sui tacchi e andò a chiudersi
in camera da letto.
Carlo passò tutta la notte dietro alla porta a supplicarla di farlo
entrare. La mattina dopo Tina aprì la porta della stanza da letto,
perfettamente truccata e pronta per uscire, passò davanti a Carlo sdraiato sul
divano senza dire una parola.
La vita matrimoniale era ripresa normalmente. Tina prendeva la pillola
di nascosto. Carlo insisteva per fare controlli per la sterilità ma Tina
ribatteva che lei era talmente giovane che
non era il caso di darsi pensiero, e ad ogni modo era presto, per il
momento potevano godersi la vita.
Carlo annuiva anche se non gli era chiarissimo a quale tipo di piaceri
Tina facesse riferimento. La presenza di Tina in casa era carica di degnazione,
lui sentiva che, in qualche modo, il solo fatto che sua moglie fosse lì,
accanto a lui, fosse per lei uno sforzo e per lui un privilegio.
La telefonata decisiva Tina la ricevette una mattina di febbraio, la
voce era quella di Filippo, il suo vecchio amico, ancora innamorato di lei.
- Come va?
- Tutto bene – rispose Tina, meccanicamente – e tu?
- Bene anch’io. E Carlo?
- Bene anche lui: Filippo, devi dirmi qualcosa?
Tina conosceva Filippo e l’inizio telefonata così formale, era
sospetto.
- Indovina chi si è fidanzato?
Tina aveva indovinato subito, forse ancor prima della domanda, la
risposta. Fece l’indifferente. Mostrò di ricordare la storia tra lei e
Francesco come una storia tra ragazzini. Il cuore le martellava nelle orecchie
e non vedeva l’ora di troncare la conversazione.
Non appena ebbe riagganciato, Tina corse al bagno a vomitare. Si era
buttata in ginocchio, aggrappata al bidet, e singhiozzava.
Francesco non la stava aspettando. Questo rendeva tutto molto più
complicato. Doveva sbrigarsi prima che fosse troppo tardi, si era appena
fidanzato, era ancora in tempo. Che aspettava Carlo a morire? Carlo doveva
morire!!!
Davanti a lei sfilarono le immagini del suo fidanzamento con Carlo,
del suo matrimonio, di tutte le volte che Carlo l’aveva toccata e lei aveva
sopportato tutto persino che lui l’avesse picchiata... solo per salvare la vita
di Francesco!
Si rialzò e si sciacquò il viso, sollevò lo sguardo e rimase qualche
istante a guardare la propria immagine allo specchio. Si diresse in soggiorno.
Prese un posacenere pesante dalla mensola del camino e cominciò a colpirsi.
Resisteva al dolore mordendosi le labbra.
Quando fu sufficientemente tumefatta, si precipitò al pronto soccorso.
Disse che era cascata dalle scale.
Non le credettero.
Carlo invece le credette, la accarezzò e le disse che doveva stare
attenta, che si strapazzava troppo. Tina cominciò ad urlare, che era stufa di
fare tutto lei, di stare sempre sola, che lui era un egoista.
Anche Carlo cominciò ad urlare per calmarla.
Il giorno dopo Tina si fece vedere in giro nel quartiere, tumefatta e
zoppicante. A chi le chiedeva che cosa fosse successo, rispondeva, abbassando,
lo sguardo, che era caduta dalle scale.
Ma nessuno le credeva.
Tina aveva imparato come farsi grosse ecchimosi senza sentire troppo
male, si era anche buttata dalle scale veramente, un paio di volte, rischiando
di spezzarsi una gamba.
A Carlo aveva detto di essere in cura da un neurologo per disturbi dei
centri dell’equilibrio e della deambulazione. Suo marito, preoccupato, si era
offerto di accompagnarla dal medico; Tina aveva cominciato ad urlare che voleva
occuparsi lei di se stessa, e che era stanca della sua sfiducia.
I medici del pronto soccorso ormai la conoscevano. Le infermiere la
accudivano amorevolmente e lanciavano ogni sorta di maleficio contro quei
bastardi degli uomini pronti ad approfittare di una giovane donna inerme.
Qualche volta, la sera, Tina camminava dalle parti della stazione dei
carabinieri e restava per qualche minuto sul marciapiede di fronte, con la
testa bassa, alzando solo gli occhi, ogni tanto, in un guizzo selvaggio, finché
qualcuno non la notava, e allora andava via.
Se lei e suo marito uscivano insieme, Tina si teneva leggermente
indietro a Carlo, con lo sguardo basso. Carlo finiva per spazientirsi e la
prendeva per un braccio, insofferente, per farla avvicinare.
Lei gli gettava un’occhiata inquieta e riprendeva a camminare
aggrappata al suo braccio, talvolta vacillante, come se le gambe non la
reggessero.
Spesso la sera li udivano litigare. Soprattutto era chiara la voce di
Tina che urlava disperata. Poi la sentivano singhiozzare dalla finestra del
bagno.
Si era confidata con la moglie del macellaio del quartiere, che le
portava la carne a domicilio, perché spesso Tina si sentiva troppo debole per
uscire: Carlo era un uomo meraviglioso ma esasperato perché desiderava
disperatamente un figlio e lei non riusciva a darglielo. Lei era anche rimasta
incinta, una volta, ma poi, era cascata dalle scale, quella scalinata
maledetta, così ripida... e aveva perso il bambino.
Tina era scoppiata in un pianto sommesso e disperato. La moglie del
macellaio aveva capito. Tutti quelli del quartiere avevano capito. Che brutta
situazione. Bisognava convincere Tina a denunciare quel mostro del marito, ma
lei era troppo innamorata, si vedeva.
La figlia del farmacista, Luisa, che si stava laureando in Psicologia,
l’aveva detto, si trattava di un caso chiaro di “Sindrome di Stoccolma”: una
simbiosi patologica tra vittima e carnefice.
Era un sabato all’ora di pranzo, il quartiere era calmo. Molti negozianti
erano nel bar a mangiare un panino in fretta.
Tina aspettava il rientro di Carlo, seduta al tavolo della cucina, si
era colpita più volte con del ghiaccio avvolto in uno strofinaccio, poi con il
coltello si era fatta delle piccole ferite e si era sparsa il sangue sul collo,
sul viso e sulle mani.
Carlo era rientrato per il pranzo e vedendola era rimasto senza
parole.
- Ma... ma che hai fatto?
Tina aveva preso ad urlare:
- Che ho fatto? Che hai fatto tu! Guarda come mi hai ridotta... sei un
maniaco, sei un pazzo...
- Tina calmati, calmati...
- Non mi toccare! - lei aveva continuato ad urlare - non toccarmi mai
più o mi ammazzo!
Tina aveva il coltello tra le mani, cominciò a correre verso le scale,
inseguita da suo marito.
- Tina, fermati... fermati!
Tina era ormai per strada:
- Aiuto! Aiuto, mi ammazza!
Carlo la raggiunse la prese per i polsi. Lei si gettò in terra
trascinandolo con sé e continuando a urlare:
- Aiuto! Aiuto...
Mentre Carlo tentava di immobilizzarla, Tina riuscì a divincolarsi e a
colpirlo prima ad un fianco e poi all’addome. Continuò a scagliarsi con
ferocia, anche sul corpo ormai immobile, col sangue che le schizzava sul viso,
sugli abiti, che le inzuppava le mani.
Qualcuno l’aveva infine afferrata per le spalle, un’altra mano decisa,
le aveva preso saldamente il polso e le aveva tolto dalle mani il coltello da
cucina.
La moglie del macellaio, le avvolse le spalle con qualcosa, forse un
asciugamano.
- Coraggio signora, è tutto finito.
Tina si sollevò da terra barcollando e guardò la signora accanto a sé
e il cadavere ai propri piedi. Sì, è finita. Pensò. Tutti hanno visto tutto.
Tutti sanno.
Lasciò andare il coltello, che cadde, senza rumore, nella pozza
rossastra.